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Daria RicchiWritten by: Città e Territorio

Una collezione così bella in un edificio così insipido

Una collezione così bella in un edificio così insipido

Philadelphia (pennsylvania). La Barnes Foundation ripropone il problema della copia, in arte e in architettura. La Fondazione nasce nel 1922 per raccogliere la collezione di Albert C. Barnes, che deve la sua fortuna alla scoperta della medicina contro la gonorrea, l’Argyrol, e raccoglie la più ricca collezione di capolavori impressionisti, post-impressionisti e moderni, per un valore stimato dai 15 ai 23 miliardi di euro. L’eccentrico Barnes aveva redatto guide per spiegare la sua visione dell’arte, aveva meticolosamente pensato la disposizione di ogni dipinto e oggetto stipati in 1.000 mq scarsi a Merion, a 20 km da Philadelphia. Seguendo i precetti del grande amico pedagogo John Dewey, per la sua collezione aveva immaginato un edificio dall’accesso limitato, un centro di educazione piuttosto che un museo. La visita della collezione era regolata da norme molto precise, e numerosi sono i racconti sui difficili rapporti tra Barnes, gli studiosi e i membri dell’alta borghesia di Philadelphia. Uno dopo l’altro fallirono tutti i tentativi di stabilire collaborazioni durevoli con altre istituzioni culturali.
Alla sua morte, nel 1951, Barnes lasciò un documento nel quale spiegava dettagliatamente l’uso che si doveva fare della collezione. Due i punti principali: la collezione non avrebbe mai dovuto lasciare la sua originaria locazione, men che meno avvicinarsi a Philadelphia; l’accesso doveva rimanere limitato per scopi educativi. Negli anni successivi la Barnes Foundation ha continuato a funzionare rispettando rigorosamente le disposizioni del fondatore: non più di 200 visitatori al giorno, niente riproduzioni a colori delle opere, niente prestiti per mostre temporanee. Ma nel 2004, dopo anni di chiusura e molte controversie, proteste e un documentario dall’emblematico titolo The Art of the Steal (L’arte del furto), un giudice ne ha approvato il trasferimento a Philadelphia; così, nessuna delle due richieste di Barnes è stata rispettata. Le motivazioni: il vecchio edificio era considerato rischioso per la conservazione della collezione e il suo restauro sembrava troppo dispendioso.
Motivazioni che suonano contraddittorie, considerato il fatto che il nuovo progetto dei newyorkesi Tod Williams e Billie Tsien è costato 120 milioni di euro, reperiti da tre organizzazioni no profit. Gli architetti sono stati selezionati nel 2007, mentre il progetto è stato reso pubblico nel 2009. L’edificio, vicino al museo Rodin progettato da Paul Philippe Cret, è quasi dieci volte più grande dell’originale: 8.600 mq, con lo spazio extra dedicato a una grande corte centrale («il giardino all’interno della galleria e la galleria all’interno del giardino», come spiegano gli architetti); inoltre uffici, caffetteria, negozio di souvenir, auditorium e una speciale galleria per mostre e aule. Il progetto di stampo modernista non ha niente di particolare: un volume parallelepipedo realizzato in pietra arenaria è interrotto da un volume traslucido a sbalzo al livello superiore che illumina lo spazio interno e una corte, e riflette la luce di notte. L’illuminazione interna è discreta per ridurre il bagliore e migliorare la visione, problema annoso a Merion.
I responsabili sono pronti a sottolineare che la Barnes rimarrà fedele alla missione educativa concepita dal suo artefice. Ma la previsione di 250.000 visitatori solo durante il primo anno, circa il quadruplo della sede originaria, lascia qualche dubbio. D’altra parte gli oppositori dicono che rimuovendo la collezione dal suo contesto originario si è creata una sorta di «McBarnes», nonostante gli sforzi di replicare i vertiginosi assemblaggi, dal pavimento al soffitto, di mobili e lavorazione dei metalli, che sottolineavano l’eccentrica filosofia di apprezzamento dell’arte da parte di Barnes. Per precisa volontà del giudice le opere dovevano essere esposte seguendo la medesima collocazione, ma il risultato è asettico. Una copia non è mai il suo originale.

Autore

  • Daria Ricchi

    Laureata in architettura presso l’Università di Firenze nel 2003, sta completando un dottorato in storia e teoria dell’architettura presso l’Università di Princeton. Interessata alla riflessione sui confini tra i generi e le narrative storiche, nonchè ai diversi modi di scrivere di architettura, ha pubblicato un saggio sul ruolo della fantasia nei testi di storia: “There is no Fantasy Without Reality. Calvino’s Architectural Fictions" (NAi, 2015). Collabora con diverse riviste di architettura (Il Giornale dell’Architettura, A10, Area) e quotidiani (Casamica, il Corriere della Sera). Il suo primo libro (2005) raccontava il neo-modernismo olandese attraverso il lavoro dello studio Mecanoo, mentre il suo successivo (2007) riguarda il lavoro dello studio newyorkese Diller & Scofidio + Renfro.

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Last modified: 18 Luglio 2015