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Written by: Reviews

Non dimentichiamo che le riviste sono anche prodotti commerciali

Da quando Joseph Grima mi ha chiamato a «Domus», ho imparato molte cose iniziando a guardare il mondo dal punto di vista delle riviste. Vorrei quindi portare l’attenzione su un aspetto sorprendentemente assente nella gran parte delle discussioni sul ruolo delle riviste di architettura in Italia, e cioè la mancanza o la scarsa valutazione della relazione tra rivista e editore, come ho avuto l’occasione di sottolineare recentemente durante un analogo incontro con «L’Architecture d’Aujourd’hui», «The Architectural Review» e «The Architectural Record a Tokyo». Un’assenza che forse consente di raccogliere e rovesciare in senso positivo alcune delle conseguenze dell’affermarsi del web e dell’editoria elettronica per le riviste tradizionali. Quale relazione intrattiene la «proprietà» con i prodotti che pubblica? Come li ha configurati e in virtù di quali obiettivi e strategie (commerciali, produttive, di mercato)? Quali forme assume il dialogo, o il conflitto, tra scelte editoriali, struttura redazionale, modalità di produzione? Queste e altre, sono domande che sembrano apparire irrilevanti quando si discute di riviste, e ancora di più, quando si tentano (ancora troppo raramente) ricostruzioni storiche delle loro vicende. È un aspetto ancora più sorprendente non solo per il rilievo che le riviste hanno occupato nel contesto della cultura architettonica nazionale, ma anche se si pensa al fatto che a dirigerle sono spesso i più eminenti storici disciplinari del nostro continente. Eppure le riviste vivono essenzialmente di questa stretta relazione. Ognuna di quelle oggi presenti è contraddistinta dall’essere il prodotto, o comunque la parte, di un grande gruppo editoriale o dall’essere il frutto di un coraggioso e indipendente editore «familiare». Come sappiamo il profilo di questi gruppi, e il ruolo che giocano i diversi periodici all’interno di essi, non è lo stesso: «Abitare» nel gruppo Rizzoli Corriere della Sera, o «Casabella» nella Mondadori di Silvio Berlusconi, non sembrano avere la stessa indipendenza, o avere lo stesso rilievo de «Il Giornale dell’Architettura» in Allemandi, o  di «Domus» per Mazzotti. Questo aspetto mi sembra definire in modo rilevante la particolarità, tutta italiana, di una cultura architettonica come «cultura delle riviste». Probabilmente è questa stessa condizione che ha imposto le riviste tra i molti veicoli di discussione possibili, che ha dato loro questa diffusione capillare, questa stessa rilevanza, quasi «fisica», rispetto a quanto accade in altri contesti. Non mi pare secondario il fatto che le riviste italiane siano prodotti «commerciali», che stanno sul mercato e che pertanto sono costretti a competere, con strategie e scopi diversi, con le leggi della domanda e dell’offerta. È anche l’immersione in questa «realtà» che ha trasformato le riviste italiane in istituzioni, in referenti che nulla hanno a che fare con i criteri scientifici dei concorsi, con l’artificialità del regno delle fanzine o dei periodici universitari sovvenzionati. Per capire questo basterebbe vedere la distanza di queste osservazioni da quell’episodio da «paese dei timidi», quale «Clip, Stamp, Fold: The Radical Architecture of Little Magazines 196X – 197X», mostra itinerante con catalogo storiograficamente ingenuo, volto a mitologizzare l’idea della rivista come vassoio di teorie, qualcosa che sta tra il foglio «carbonaro» engagé e  l’astratto centro di potere. Certamente non sono mai stati letti in questa prospettiva il ruolo e la relazione tra l’editore e il funzionamento pratico delle riviste.
Dal punto di vista dell’editore le riviste, pur restando nel nostro caso, produzioni eminentemente culturali, sono principalmente delle iniziative commerciali. Vivono, e soprattutto devono vivere, in virtù dei margini di profitto che riescono a produrre. Questi margini sono fatti dalle vendite e dalle pubblicità. E qui forse sta un punto cruciale. Un punto che ci indica ancora di più l’anomalia dell’assenza della ricostruzione di questi aspetti nella storiografia architettonica italiana. Perché, se c’è qualcosa che ha segnato socialmente e politicamente le vicende del nostro paese negli ultimi venti anni è stato proprio il rapporto tra mondo della comunicazione, quella cosa che chiamiamo «pubblicità», e politica. È sorprendente come gli stessi intellettuali che criticano l’ex presidente del Consiglio non facciano attenzione al rilievo del medesimo aspetto nella definizione delle riviste. Se è stato il mondo della pubblicità, il mondo dei media della comunicazione a disegnare così tanto l’apparenza della nostra società recente, il mondo della pubblicità, e quello dell’editoria nei suoi complessi rapporti tra proprietà e produzioni intellettuali, potrebbe essere la lente attraverso la quale dovremmo valutare un po’ meglio le riviste e attraverso queste la rappresentazione dell’architettura che ne viene data. Credo che questo sia un punto sostanziale anche perché ha molto a che fare con i cambiamenti radicali in corso. Se vogliamo portare del respiro nuovo nel campo dell’editoria d’architettura oggi, forse, al di là dei molti discorsi sui cosiddetti «contenuti», dovremo proprio partire da un’analisi di questi aspetti e vedere come possano costruire degli orizzonti innovativi proprio nella struttura pubblicitaria e commerciale delle riviste e confrontarli in modo innovativo con il mondo del web e dell’editoria elettronica.
 

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Last modified: 10 Luglio 2015