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Danilo Udovicki-SelbWritten by: Professione e Formazione

Un modernista lontano dalle luci della ribalta

Charles Gwathmey, il più giovane del gruppo noto come i «Five Architects», è morto di cancro a 71 anni. «Five Architects» è il nome che Paul Goldberger diede a Peter Eisenman, Michael Graves, John Hejduk, Richard Meier e lo stesso Gwathmey, il cui lavoro, accomunato dalla devozione alle forme pure di un certo tipo di razionalismo modernista, fu esposto da Arthur Drexler al MoMA nel 1967 per poi essere oggetto del libro Five Architects.
Ognuno di loro progettò residenze stravaganti e sovradimensionate in modo a volte offensivo, e case per «ricchi e famosi» (che per Gwathmey furono Steven Spielberg, Jeffrey Katzenberg e David Geffen, Faye Dunaway e Jerry Seinfeld), gettando una luce quasi inquietante sulla loro affermazione che la forma venisse prima delle preoccupazioni sociali, della tecnologia o della risoluzione dei problemi funzionali. Mentre alcuni «membri» del gruppo successivamente lanciarono o seguirono stili e mode del momento, Gwathmey si è sempre distinto non solo per la fedeltà al credo modernista inteso alla maniera di Meier, ma anche per l’incessante ricerca di possibili reinterpretazioni che ricordassero Le Corbusier e, anche se più superficialmente di Eisenman, Giuseppe Terragni.
Guardando alla sua ricca carriera, a volte costellata da chiassose controversie riguardanti i suoi edifici pubblici (l’«addizione» al Guggenheim di Frank Lloyd Wright, l’ampliamento a Harvard dei musei Busch-Reisinger e Fogg che dovettero essere distrutti pochi anni dopo il completamento, il recupero e l’ampliamento della Scuola di Architettura di Yale di Paul Rudolph, l’Astor Palace di Manhattan), si è colpiti dal fatto che raramente i maggiori riconoscimenti gli furono portati dalle commesse più prestigiose, a volte a ragione.
Non è insolito che gli architetti famosi si affermino con un capolavoro nei primi anni della loro attività. Ciò vale sicuramente per la casa che Gwathmey progettò nel 1965 per i genitori: il più simbolico dei suoi progetti. Il modo con cui ha ripensato l’interno per adattarlo a se stesso, verso la fine della sua carriera lunga 40 anni, corrisponde chiaramente a una sorta di «canonizzazione» della sua opera prima. Questi sforzi sembrano confermare simbolicamente i suoi tragici tentativi di recuperare lo spirito di un oggetto quasi mitico, come un orizzonte che arretra impossibile da raggiungere.
La sua passione e maestria per la complessità geometrica, rintracciabile nelle prime case, sminuisce le sue opere tarde, spesso orgiasticamente fuori scala, come casa De Menil. Paradossalmente, queste case sparse hanno in qualche modo tradito quello che sembrava essere il suo credo più intimo, quando affermava che «Realizzare [la casa dei miei genitori] mi ha chiarito che l’architettura non deve essere grande per avere una presenza e un contenuto… Il modo in cui è posizionata e stabilisce le sue forme è fondamentale per la sua lettura». La piccola casa di famiglia riesce senza sforzo a riunire eleganti reminescenze di niente meno che villa Stein a Garches, villa Savoye a Poissy o di villa La Roche-Jeanneret a Parigi ma, mentre la visione di Le Corbusier era «governata dalla pianta», il processo creativo di Gwathmey era definito dalle sezioni.
L’ultimo progetto completato prima della morte è stato il nuovo edificio a Yale. E questa è stata la fine più logica. Gwathmey ha infatti iniziato la sua carriera dopo la laurea a Yale, nel 1962. Ha studiato con Rudolph e contribuito alla redazione di qualche disegno del nuovo progetto. Considerava il suo ampliamento come una delle imprese più significative di tutta la carriera, condivisa con Robert Siegel, suo amico dai tempi del liceo.
Quando gli ho chiesto che cosa pensasse degli attacchi dei critici, specialmente quelli dell’irascibile Nicolai Ouroussoff del «New York Times», mi ha risposto con tristezza e sconforto: «Non ha avuto niente di buono da dire!». Dopo la morte dell’amico, Eisenman ha affermato in un’intervista: «Charles era capace di fornire soluzioni sofisticate ai problemi di distribuzione, di circolazione – ma quelle sono cose che non fanno guadagnare i grandi titoli dei giornali».

Autore

  • Danilo Udovicki-Selb

    Laureato in Architettura e pianificazione all'Università di Belgrado, ha conseguito un master in Filosofia al Boston College e un dottorato in Storia, teoria e critica dell'architettura Massachusetts Institute of Technology. È docente associato presso la Austin School of Architecture dell'Università del Texas.Ha pubblicato molti contributi sugli anni 30 in Francia e Unione sovietica, in particolare sull'avanguardia architettonica russa, su Charlotte Perriand e Le Corbusier. La sua più recente pubblicazione ha riguardato la cura del volume “NARKOMIN: Moisej Ginzburg and Ignatij Milinis” (Ernst Wasmuth Verlag, Berlino). Attualmente, sta scrivendo un libro sulle avanguardie sovietiche nell'epoca staliniana. È corrispondente del Giornale dell’Architettura dal 2003.

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Last modified: 18 Luglio 2015