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Francesca PetrettoWritten by: Città e Territorio

Ritratti di città. Chemnitz “Stadt der Moderne”

Ritratti di città. Chemnitz “Stadt der Moderne”

Dove “il futuro era già di casa”, o di come provare a sopravvivere in un mare di contraddizioni alla desolazione post Wende

 

«Le nobili caratteristiche dell’uomo comunista, il calore della vita, la gioia e l’apertura mentale, l’amore per la bellezza e la raffinatezza dell’uomo dell’epoca comunista devono trovare la loro espressione in architettura.

[…] Compito elevato dell’architettura è, attraverso le sue creazioni, nobilitare la vita quotidiana del lavoratore e promuovere l’educazione comunista per i più alti ideali dell’umanità. L’arte socialista precede il presente. Usa le sue risorse per mostrare le prospettive di sviluppo a un’umanità liberata dallo sfruttamento. Essa è partigiana fino all’ultimo».

Herbert Riecke, teorico urbanista socialista (1954)

CHEMNITZ (GERMANIA). Nel cosiddetto “SEKo-Stadtentwicklungskonzept 2020” lo Stadtrat (consiglio comunale) ha redatto quasi dieci anni or sono un documento programmatico di norme, criteri e obiettivi per il “corretto sviluppo del centro industriale più importante della Sassonia”: attraverso di esso ci si propone di creare, entro il 2020, una città del futuro, di integrazione, sapere e tecnologia. La sua lettura è di grande interesse: mostra lo sforzo di ottimismo di una nuova classe politica locale che ha ereditato dal passato grandi magagne e si trova a dover mettere freno alle molte spinte nazionaliste e xenofobe raccontate negli ultimi mesi dalla stampa internazionale. Per combattere con strumenti democratici il riproporsi del peggiore degli incubi del popolo tedesco, si è anche pensato di candidare Chemnitz a Città europea della Cultura 2025. Inoltre, da quasi dieci anni in tutti i documenti ufficiali dell’ex Bezirk Karl-Marx-Stadt il nome Chemnitz è accompagnato dalla definizione Stadt der Moderne: un interessantissimo spunto di riflessione, se si considera che la non lontana, eppure così differente Weimar si candida, nell’anno delle celebrazioni per il centenario del Bauhaus (2019), ad essere per tutti la Modellstadt der Moderne. Non fosse che «la» (in tedesco il sostantivo è di genere femminile) Moderne intesa dai turingi non è esattamente l’omologo di quella cui fanno riferimento i cugini sassoni, che ne interpretano il significato più alla lettera, in una stimolante ibrida combinazione fra tempi dell’arte internazionale e richiamo ad attitudini progressiste autoctone. La politica programmatica che sta dietro al nuovo motto cittadino si richiama alle glorie del passato (industriale, Gründerzeit, Jugendstil, Bauhaus) avvicendatesi in stili di costruzioni e progettazione urbana, lasciandone volutamente fuori la non piccola parantesi pluri-quarantennale della dittatura DDR. L’elemento lessicale è in tal senso importantissimo: qui la Moderne diventa sinonimo di un progresso di cui Chemnitz si è sempre vantata essere regina in Germania, capitale dell’industria e del miracolo economico tedesco post rivoluzione industriale (città di fabbriche di auto, di metallurgia e dell’industria tessile), almeno fino allo scoppiare della Seconda guerra mondiale. Che poi il concetto sia anche espressione di progressismo in quanto volontà politica, proiezione verso un futuro che significa produzione, è sì retaggio del passato glorioso della “Manchester sassone” otto-novecentesca, ma anche proprio di quell’epoca che si fa di tutto per dimenticare, quando la Germania post bellica fu divisa nei due grandi blocchi Oste Weste e la di lì a poco nascente Repubblica Democratica Tedesca, avamposto del blocco comunista sul fronte occidentale, iniziò a progettare la società dell’Avvenir.

 

Karl-Marx-Stadt, era socialista

Quando nel 1952 il Partito (SED – Sozialistische Einheitspartei Deutschlands) la ribattezzò ex abrupto Karl-Marx-Stadt, non compì un gesto dovuto nei confronti della salvifica Unione Sovietica, come piacque credere a Mosca. Fu piuttosto il ritorno all’esaltazione dell’autoctono, a un patriottismo e nazionalismo che nemmeno le più feroci purghe staliniste erano mai riuscite a soffocare. Marx era stato un filosofo ebreo tedesco, non un filtro o un ignaro profeta; di più, era stato il padre dell’Idea socialista: la volontà di distaccarsi dalla massa e di primeggiare fra tutte le nazioni dell’Est Europa si rese quanto mai evidente in questa rivendicazione di superiorità e di alterità primigenia non inficiata dai crimini commessi dal dittatore russo (che Nikita Kruscev immediatamente condannò alla morte di quello, 1953). Sono specifiche senza le quali non si può comprendere la politica dello sviluppo urbano di una città che i bombardamenti degli alleati nel 1945, a guerra praticamente finita, avevano quasi totalmente raso al suolo, creando senza volerlo la tabula rasa perfetta per l’anno zero dell’architettura DDR. Che Marx poi non fosse mai passato da Chemnitz e che nemmeno mai una volta l’avesse esplicitamente citata nei suoi scritti poco importava: la città della Moderne socialista, portandone con orgoglio il nome, diventava per la propaganda di regime l’unica culla possibile della società dell’avvenire, con un proprio stile architettonico esemplare per le nazioni della classe operaia, concretizzazione in pietra e cemento dei suoi ideali progressisti, paradiso del proletariato. Di questa promessa di un laico regno dei cieli in terra che Chemnitz era chiamata a realizzare per prima, la città di oggi piange ambiguamente le rimembranze, ora sfruttando i resti costruiti dell’iconografia marxista, ora dissimulandola e soffocandola in un caos di stili e in un tripudio di ipertecnologici centri commerciali.

La DDR dei primi anni (dal 1949) restaurò le architetture simbolo che potevano tornare utili alla propaganda di regime; ma quando a Mosca Kruscev diede avvio al cosiddetto processo di destalinizzazione, s’impedì tassativamente agli architetti tedeschi dell’est di progettare per-e-con l’arte. L’architettura stessa era in un certo senso bandita, così come ogni singolarità o moto individualista che potesse creare diversificazione e zone d’ombra incontrollabili dal regime: si doveva progettare la città, non l’edificio singolo, mettendo al centro la produzione, le logiche e gli interessi della comunità, il lavoro e l’economia anti-capitalista. Ma le teorie rimasero per lo più sulla carta e i numerosissimi concorsi e piani urbanistici in nome della purezza innata della classe operaia irrealizzati. Si ritornò a considerare vincente quel potere delle immagini così caro all’ultima dittatura nazionalsocialista, lapalissianamente copiata in architetture colossali con massicce aggiunte di grigio, moderno cemento. Un artista russo fu incaricato di realizzare la gigantografia bronzea del capo di Marx (ancora oggi simbolo della città di Chemnitz) al centro della nuova Zentraler Platz e due scultori tedeschi per il monumento che gli fa da sfondo, inserito nei mastodontici edifici governativi del SED. L’enorme Straße der Nationen, concepita per le parate e adunate di partito, fu inserita fra quei primi e la barocca Theaterplatz a est, cercando un dialogo con le tracce del recente passato. Perché la DDR – non solo a Chemnitz – difficilmente distruggeva le preesistenze, preferendo riutilizzarle, convertendole nella destinazione d’uso come una religione che s’impone sulle precedenti, ma mossa da logiche di risparmio o spesso per pigrizia e insicurezza progettuale congenita di una nomenklatura tanto stabile quanto immobile e corrotta e un palese disinteresse per i bisogni della classe operaia. Una generazione di cittadini a digiuno di umanesimo sarebbe bastata a far dimenticare il passato, le cui rimanenze potevano essere manipolate a piacere dal Partito come nella peggiore distopia orwelliana. Le rovine di scarso interesse per la propaganda venivano ignorate perché espressione di un passato scomodo che ricordava una Germania perdente in guerra e così si creavano dei tristi deserti, non certo i parchi e i locali promessi per il tempo libero del felice operaio che, smontato il turno in fabbrica, si mette sulla via di casa.

Solo negli anni ’70 anche Chemnitz fu dotata della sua Stadthalle, con teatri e sale per eventi sotto stretto controllo del Partito. I suoi prospetti e la composizione d’insieme ricordano molto il complesso di Egon Eiermann per la Gedächtniskirche a Berlino-Ovest, a dimostrazione del fatto che almeno nelle scuole di architettura (il suo Chefarchitekt Rudolf Weißer fu a lungo professore universitario) non si poteva evitare il progresso delle idee e un confronto comunque “costruttivo” col nemico capitalista.

 

Il “paradiso” post Wende

Quanto al «moderno» realizzato dopo la Wende [la “svolta” post socialista; n.d.r.], lascia tracce indelebili che il SEKo 2020 difficilmente potrà cancellare. Scoppierebbe una vera rivolta popolare se i cittadini sassoni si vedessero nuovamente privati del piacere di poter spendere fino all’ultimo centesimo guadagnato nei nuovi mega-negozi del centro città. Infatti, come per contrappasso, il cuore della Innenstadt è diventato un tempio del più sfrenato consumismo: tre enormi gallerie per acquisti affollatissime a tutte le ore ne occupano, al fianco di un timido Markt coi due bei Rathaus ricostruiti in stile, la parte più importante, mentre a poche centinaia di metri l’ampia Straße der Nationen, e soprattutto la bellissima Theaterplatz sul margine orientale, sono un deserto di fantasmi del passato.

Che la classe operaia sia andata in paradiso al centro commerciale?

Gli anni della DDR

I FASE – Rovine accanto a nuove “architetture da operetta”

Il centro di Chennitz era all’indomani dei bombardamenti del marzo 1945 un deserto di 6 kmq. Il Building Act del 1950 “mise in sicurezza le rovine”, subordinando al Partito qualsiasi intervento su di esse e qualsiasi iniziativa costruttiva ex novo in città: fu redatto una sorta di manifesto urbanistico della pianificazione del neonato Bezirk dell’est basato su 16 principi che rimase in vigore appena un anno (1951). Vista l’inconcludenza dei primi piani scaturitine, si decise nel 1952 di cambiare il nome della città da Chemnitz a Karl-Marx-Stadt. In un momento d’incertezza, paura e grande confusione, si optò per mettere in scena “architetture da operetta”, un’immagine armoniosa irreale accanto a rovine ancora fumanti, che potesse far dimenticare le distruzioni accordandosi al ricordo del lungo boom cittadino ottocentesco: le ricostruzioni sulle Reitbahnstraße e Innere Klosterstrße (1950-56) insieme a quelle del Markt di Altes Rathause Neus Rathaus (fine anni ’40), di Roter Turm (1957) e Theaterplatz (1947-1951) sono la massima espressione della fase dello storicismo di stampo stalinista in cui l’arte e l’estetica giocano ancora un ruolo di primo piano.

II FASE – Architettura come propaganda di Partito

L’idea dei primi anni di una Karl-Marx-Stadt Gesamtkunstwerk viene ritenuta superata e meschina: il cambio ai vertici del Partito internazionale e locale impone cambiamenti epocali anche nel disegno urbano. La progettazione della nuova città deve dare forma al processo di sviluppo, lasciare spazio a una nuova estetica figlia dell’ottimismo della classe operaia. L’architettura deve persuadere il lavoratore ad amare sempre più il Partito, che si è sostituito nella venerazione popolare a Lenin e Stalin. Il concorso del 1961 per il ridisegno del centro città vuole la creazione di nuovi spazi, generosi nelle dimensioni, di biblioteche, teatri, cinema, teatro di varietà, complessi sportivi, hotel, bar e blocchi abitativi più moderni. La Zentraler Platz non deve più essere al margine dell’antico centro ma diventarne il nuovo cuore pulsante per manifestazioni, parate e feste di partito, contraltare dell’esperienza di vita quotidiana del lavoratore proletario. Ma il neuer Geist non sarà mai realizzato: dei 18 edifici del progetto vincitore del concorso solo sei Plattenbauten saranno costruiti, sulla Straße der Nationen e secondo la volontà del SED; a fianco ad essi le coulisse monumentali sulle Muhlenstrasse e Brückenstrasse riconvertite ad una retorica politica di comodo, così come la Roter Turm divenuta museo simbolo della resistenza e della persecuzione dei martiri socialisti ad opera del nazismo.

III FASE – Megalomania di regime

La gigantesca scultura in bronzo e granito del monumento a Marx di Lew Kerbel (1971), simboleggia piuttosto trivialmente il nascere dell’Idea: come un novello Zeus, domina coi suoi 7,1 metri di monito paternalista sulla città socialista; come un “Grande fratello” fa da cerniera con le architetture retrostanti degli edifici del governo municipale del Bezirk Karl-Marx-Stadt e dalla SED-Bezirksleitung (oggi edifici di polizia). Il complesso unito della scultura con l’enorme placca portante il più celebre motto marxista (“Proletari di tutto il mondo unitevi!”, di Volker Beier e Heinz Schumann) che ha alle spalle e i Plattenbauten governativi grigi a bande azzurre (costruiti nel 1968-70 la parte rettilinea est, e nel 1977-79 quella segmentata a ovest), crea un indivisibile collegamento fra organi statali e principi ideologici della società socialista. La Stadthalle di Rudolf Weißer (1969-74), voluta come nuovo centro culturale cittadino, costituisce un’unità costruttiva con il grattacielo dell’hotel Mercure (1974). Caratteristico l’ottagono di base e le facciate che ricordano per forme a nido d’ape stilizzate e nell’insieme dei corpi di fabbrica quelle di Egon Eiermann a Berlino. Fu un eccezionale esercizio di megalomania di regime, per costruire il quale s’impiegarono diverse tonnellate di porfido rosso e altri costosissimi marmi.

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Edifici e progetti post Wende

Le tre nuove gallerie per acquisti occupano la quasi totalità del centro cittadino ricostruito dopo il crollo del Muro di Berlino. Sono la Galerie Roter Turm, una sorta di arena mozarabica del commercio accanto alla Roter Turm medievale, facciate e concetto dell’Hans Kollhoff attivissimo a Berlino (2000); poi Der gläserne Kaufhof di Helmut Jahn, noto per il Sony Center a Potsdamer Platz (1998-2001); infine das gläserne Kaufhaus, Peek & Cloppenburg di Christoph Ingenhoven (2005). Vanno poi ricordati restauro e riapertura della Kulturkaufhaus DAStietz (ex Kaufhaus Tietz di Wilhelm Kreis, 1912-13) oggi centro culturale multifunzionale (2004); la riapertura della Shockenhaus, capolavoro di architettura anni ’30 su progetto di Erich Mendelsohn (1930), che oggi ospita il Museo statale di Archeologia di Chemnitz-smac; il restauro (1998-2011) di Villa Esche di Henry van de Velde (1902-1911), oggi importante sede museale; infine i molti restauri ancora in corso nel quartiere Gründerzeit di Kaßberg, tesoro cittadino extra-moenia.

Cronologia

– Tra il 1143 e il 1170 risale la fondazione di Chemnitz per volontà di Federico Barbarossa accanto all’omonimo fiume: già nel Medioevo è un importante centro economico, produttivo e del commercio.

– Verso la fine del XVIII sec. diventa con le prime fabbriche eminente centro industriale; inizia ad essere conosciuta con l’epiteto di “Manchester sassone”.

– A cavallo tra XIX XX sec. è la città più ricca della Germania nonché una delle più popolose; si prevede un boom delle nascite e una popolazione di oltre un milione di abitanti, da cui il boom dell’edilizia e delle abitazioni.

– Nel 1945, alla fine della guerra, diventa obiettivo prediletto dei bombardamenti degli alleati: gli inglesi ne distruggono interamente il centro (pura rappresaglia); gli americani, i punti di scambio, le stazioni e le fabbriche. A Chemnitz, già regina nella produzione di auto, motori, industria metallurgica e tessile, tutte le fabbriche erano state convertite dal III Reich per la produzione dei motori dei panzer.

– Dopo il 1945: passata subito sotto la sfera del potere comunista stalinista centralizzato, diventò lentamente orgoglioso centro dello stato socialista tedesco (nato il 7 ottobre 1949) che ne cambiò il nome in Karl-Marx-Stadt (1952), investendola, col titolo di capitale del “Bezirk Karl-Marx-Stadt”, del compito di diventarne città simbolo. (*Bezirk – distretto”).

– Con la Wende e la riunificazione tedesca (1989-1990) ritorna a chiamarsi per plebiscito cittadino (referendum popolare del 23.04.1990) Chemnitz.

– Dal 1995 inizia lentamente la ripresa: grandi fabbriche riaprono (IBM, ThyssenKrupp e Volkswagen), la Technische Universität attiva corsi e seminari a livello internazionale. Riprende la ricostruzione, ancora una volta soprattutto ex novo.

Colonna sonora

Nina Hagen, Du hast den Farbfilm vergessen (1973 ca.)

Autore

  • Francesca Petretto

    Nata ad Alghero (1974), dopo la maturità classica conseguita a Sassari si è laureata all'Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Ha sempre affiancato agli aspetti più tecnici della professione la passione per le humanae litterae, prediligendo la ricerca storica e delle fonti e specializzandosi in interventi di conservazione di monumenti antichi e infine storia dell'architettura. Vive a Berlino, dove esegue attività di ricerca storica in ambito artistico-architettonico e lavora in giro per la Germania come autrice, giornalista freelance e curatrice. Scrive inoltre per alcune riviste di architettura e arte italiane e straniere

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Last modified: 14 Novembre 2018