Riceviamo e pubblichiamo una lettera sul dilemma delle Vele di Scampia a Napoli, da demolire o recuperare; non esiste una risposta ma una domanda allargata ai non addetti ai lavori
Una domenica mattina ricevo una email da un architetto, consigliere comunale di Napoli, che mi chiede di guardare un video da lui realizzato e dire cosa ne penso. Lo guardo: demolire o recuperare le Vele di Scampia. La domanda mi assilla da qualche anno, da quando, lasciata l’Italia, mi sono ritrovata col bagaglio di tale domanda a Londra, e sebbene la domanda fosse la stessa, le fasi delle mie risposte si sono susseguite nel tempo ed hanno raggiunto un voler trovare senso – o risposte, che poi è la stessa cosa – che forse non è necessario e non sta a noi (categoria architetti) trovare.
Se in Inghilterra il Brutalismo è diventato qualcosa da preservare e persino chiudere in una teca da esporre al Victoria and Albert Museum, e se i grandi nomi dell’architettura contemporanea firmano petizioni per evitare la demolizione di Robin Hood Gardens, e se il discorso sulle periferie – sempre legato al nome di Renzo Piano ormai per associazione mentale – si riduce a voler per forza parlare di edifici invece che della città, allora mi chiedo se questo dilemma della demolizione o ricostruzione non sia forse legato ad un’astrazione di pensiero che esula da ogni contesto e localismo.
Non esiste una risposta, non esiste la giusta azione, non esiste un modo, una metodologia, non è una questione finanziaria ma etica, a mio avviso. Se continuiamo a cercare risposte nella disciplina, se restringiamo le decisioni ai “professionisti” – “competenti” in materia di decisioni – forse continueremo a considerare gli esperimenti architettonici come un gioco da tavolo piuttosto che strategie sociali. Se il disastro sociale provocato da tali esperimenti ha indotto a percepire gli edifici in questione come la causa dei suddetti mali sociali, se l’ambiente costruito non è un’astrazione ma esiste davvero ed è un luogo che innesca relazioni (sociali, economiche, politiche, etiche ed estetiche) fra persone, allora è l’uomo che va interrogato, se il dubbio ci assale e non ci fa dormire la notte.
Non è il sindaco, non è il consigliere comunale, non è Renzo Piano, non sono Alison e Peter Smithson quelli che hanno vissuto per anni in queste utopie costruite, non sono solo loro i cittadini – con la C maiuscola – di Napoli o Scampia, o Londra o Genova o Roma o Torino; qui si parla di abitazioni (luoghi in cui la gente vive), non di un dibattito architettonico. Non c’è un vincitore, non c’è la risposta, c’è però la domanda allargata ad un più ampio numero di persone.
Se si pensa che gli abitanti di Scampia siano “solo” interessati ad avere un tetto dignitoso sotto cui vivere, è questo il perno su cui deve ruotare la nostra riflessione. Perché pensiamo all’architettura piuttosto che concentrarci sull’uomo? Non è forse questo il compito degli architetti?
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rigenerazione urbana
Last modified: 12 Febbraio 2018
[…] Il sistema di connessione si avvale delle linee ferrate. Il Piano comunale dei trasporti fu approvato nel 1997 come un “progetto complessivo di sistema” integrato con le ferrovie regionali con caratteristiche metropolitane. Il progetto è ancora in corso per quello che interessa le direttrici a tutt’oggi escluse dalla mobilità su ferro: la Secondigliano-Capodichino-Centro ad esempio. Il collegamento con l’aeroporto di Capodichino è ineludibile; il progetto in fase di realizzazione è a firma di Richard Rogers. La rete regionale funzionante arriva fino ad Aversa, avendo in Piscinola il nodo di scambio. Ma si può dire che il flusso maggiore si muove al contrario: dal territorio alla città. Con il peso conseguente. Piscinola vale a dire: Scampia, e quindi Vele. […]