Davide Tommaso Ferrando si sofferma sui punti deboli di un’edizione importante e problematica al contempo, per evitarne il rischio di una liquidazione positiva, rapida e indolore
VENEZIA. Forse nessuna installazione esemplifica il carattere ambiguo della Biennale di Alejandro Aravena come quella da lui stesso progettata all’ingresso dell’Arsenale, i cui elementi in cartongesso e alluminio sono stati recuperati dallo smantellamento della Biennale d’Arte 2015, in nome di quella “sostenibilità” che costituisce una delle quattordici parole chiave di «Reporting from the Front». Cosa ne sarà di tali materiali dopo la mostra, tuttavia, non ci è dato saperlo, ma è ben probabile che entreranno anch’essi a far parte della montagna di scarti prodotta a fine Biennale… alla faccia della sostenibilità.
Non che in «Reporting from the Front» si usino gli slogan a caso. Al contrario: nei suoi spazi all’Arsenale e al Padiglione centrale ai Giardini si trovano (finalmente) documentate pratiche architettoniche che stanno ridefinendo il rapporto tra architettura e società, nonché ricerche e casi studio di grande rilevanza, inequivocabilmente posizionati “al fronte” della disciplina. Fossero tutte così, le opere esposte, sarebbe possibile delineare i tratti di una mostra non solo di qualità ma anche “impegnata”, della quale potremmo dichiararci tutto sommato soddisfatti: sia in qualità di architetti, seguendo l’ondata d’approvazione espressa dalla maggior parte delle testate giornalistiche – persino dalle voci tradizionalmente più critiche, come quella di Lucia Tozzi –, sia in qualità di italiani, come suggerito da Roberto Zancan. Eppure, non si possono non notare, insieme a Emanuele Piccardo, le stonature della sinfonia di Aravena: punti deboli sui quali sarebbe meglio soffermarsi, se non altro per evitare il rischio di una liquidazione positiva, rapida e indolore di una Biennale importante e problematica allo stesso tempo.
Problematica perché, ad esempio, la mostra affianca installazioni realizzate con budget minimi che celebrano la progettazione in assenza di risorse, ad altre in cui né il progetto di allestimento né i progetti allestiti hanno evidentemente badato a spese. Tanto per capirci, si narra che nei giorni del vernissage un collezionista abbia acquistato a un prezzo non precisato l’opera esposta dagli austriaci marte.marte alle Corderie: cinque blocchi di calcestruzzo scolpiti a bassorilievo, dalle cui incisioni emergono i modellini dei loro (tutt’altro che economici) progetti. E se nemmeno la Biennale di Aravena riesce a sottrarsi alla mercificazione dei propri prodotti, non si può non notare come il sistematico accostamento di architetture estremamente opulenti ad altre realizzate in condizioni di scarsità, produca un’innecessaria legittimazione delle prime e un’indesiderabile estetizzazione delle seconde.
Del resto, non è chiaro da quale front abbiano fatto rapporto i marte.marte (forse dal front desk della loro banca?), e lo stesso si può dire delle partecipazioni di Barozzi Veiga, Aires Mateus, Bernaskoni, Renato Rizzi, C+S, Ensamble Studio, Rapahel Zuber e altri notevoli architetti invitati da Aravena, non precisamente noti per la valenza politica dei loro progetti, le cui opere esposte sono – in buona parte ma non sempre – tanto interessanti dal punto di vista estetico quanto deludenti da quello della coerenza con il più ampio tema della mostra, che fino a prova contraria avrebbe dovuto riguardare il rapporto tra architettura e società. Sì, proprio quella società di cui fanno parte gli exploited workers che stanno costruendo il futuro Louvre di Abu Dhabi, evocato all’interno delle Corderie per mezzo di una poetica installazione di Transsolar con Anja Thierfelder, i cui fasci di luce stanno forse a commemorare Jaleel Kandi, l’elettricista pakistano morto a luglio dell’anno scorso nel cantiere del museo.
Eppure, a leggerne le descrizioni riportate sugli sgualciti foglietti appesi a ferri di armatura piegati e incastrati in blocchi di laterizio – massima espressione di un’austerità raramente riscontrabile nelle opere descritte –, sembrerebbero ben pochi i contributi off topic di questa Biennale, tant’è che quasi quasi, completata la visita, verrebbe da pensare che il fronte si trovi davvero tutto attorno a noi: persino in una matrioska o in una colonna mozzata.
Si tratta, in realtà, di un effetto secondario del progetto curatoriale di quest’anno. Con un evidente passo indietro rispetto alla Biennale del suo predecessore, Aravena ha infatti lasciato grande libertà ai propri invitati, evitando di proporre temi vincolanti e di estendere il proprio controllo fino alle soglie dei padiglioni nazionali, come fece invece Rem Koolhaas due anni fa. Ed è così che la Biennale di Architettura di Venezia del 2016 è tornata a essere quello che era stata nelle edizioni precedenti a quella del 2014: una grande esposizione all’Arsenale il cui fascino dipende forse più dallo spazio ospitante che dalle opere esposte; una caotica fiera dell’architettura allestita all’interno del Padiglione centrale; e una serie di contributi nazionali che interpretano, in maniera più o meno coerente, il tema lanciato dal curatore.
Certo, è sempre stato così, e nessuno (o quasi) si è mai scomodato per farlo notare. Ma la Biennale di Aravena, a differenza per esempio di quelle di Kazujo Sejima o David Chipperfield, non può fare a meno di confrontarsi con tale problematica: sia in virtù dell’inevitabile paragone con il mastodontico sforzo curatoriale che ha prodotto il trittico «Monditalia-Fundamentals-Absorbing Modernity», sia a causa della carica ideologica di un titolo impegnativo come «Reporting from the Front», che non si può certo archiviare con un po’ di cartongesso.
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alejandro aravena , allestimenti , biennale venezia 2016 , reporting from the front
Last modified: 20 Giugno 2016
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