I commenti di Hans Ibelings, Carmen Andriani e Luigi Prestinenza Puglisi in vista dell’apertura della 18. Mostra internazionale di architettura
Con l’avvicinarsi della 18. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, abbiamo chiesto un commento di anticipazione a tre personalità del mondo dell’architettura sulla prossima Biennale: Hans Ibelings, Carmen Andriani e Luigi Prestinenza Puglisi (testi raccolti da Michele Roda).
Hans Ibelings: “The bigger picture”
La cultura architettonica ha bisogno di luoghi di scambio e riflessione, ruolo che in passato è stato spesso svolto dalle riviste. Certo, molte riviste erano (e, se esistono ancora, continuano ad essere) esclusive, tagliando fuori molte voci nei loro messaggi unidirezionali dagli editori ai lettori. Ma erano ugualmente importanti per la sfera pubblica dell’architettura, raggiungendo un pubblico e generando una conoscenza condivisa. In qualità di lettore, di scrittore, di curatore e di editore di riviste, mi rattrista vedere che la maggior parte delle riviste stampate sia scomparsa o comunque prossima all’estinzione. Le ultime sopravvissute sono sempre più come orsi polari emaciati su frammenti di ghiaccio che si restringono rapidamente.
I loro successori digitali sono forse economicamente più redditizi e altamente informativi. Hanno contribuito notevolmente a garantire che ci siano informazioni e immagini più a portata di mano che mai. Ma spesso sono come nastri trasportatori, che sfornano incessantemente pezzi su nuovi edifici e progetti, il più delle volte basati direttamente sui comunicati stampa degli architetti. I successori digitali delle riviste sembrano meno propensi – o meno interessati – alla riflessione, che richiede un rallentamento e un passo indietro, per vedere un quadro più ampio.
Per questa riflessione, Biennali come quella di Venezia sono di importanza straordinaria. Con 63 contributi “nazionali”, oltre alle mostre e agli eventi curati dalla direttrice di questa edizione Lesley Lokko, questa Biennale promette di essere un altro momento eccezionale proprio per riuscire a vedere l’architettura contemporanea in un contesto più ampio.
Una Biennale è un ottimo veicolo per offrire una prospettiva a volo d’uccello. Non importa quanto sia scomodo il suo formato, quanto costosa e dispendiosa la sua produzione e quanto diossido di carbonio serra emetteranno tutti i partecipanti e i visitatori. Le Biennali generano opportunità per mettere insieme non solo idee e progetti ma, a differenza di riviste o siti web, anche persone interessate, accelerando lo scambio e la costruzione di conoscenze condivise.
L’ultima edizione veneziana ha avuto quasi 300.000 visitatori. Alcuni giorni di apertura hanno attirato più di 6.000 persone (la maggior parte dei libri e delle riviste di architettura ha molti meno lettori). Inoltre, le Biennali suscitano molta attenzione anche da parte dei media generalisti. Quindi c’è qualcosa che va oltre la Biennale stessa. Per quanto sia importante a livello disciplinare, una Biennale è anche un momento degno di nota oltre i confini del mondo dell’architettura. Si rivolge ad un pubblico globale, molto più vasto degli addetti ai lavori.
In conclusione, se mi chiedete se la Biennale di Architettura di Venezia ha ormai concluso il proprio ciclo, la mia risposta è netta: non credo proprio!
Carmen Andriani: “Verso la liquefazione dell’architettura?”
Questa Biennale non sembra mancare alla sua principale missione, quella di farsi sensore del futuro mettendo in scena le azioni del presente su scala globale. Futuro, cambiamento, nuove narrazioni sono le parole chiave: l’esposizione dev’essere in grado di costruire un racconto e di dare voce alle storie poco ascoltate, se non cancellate del tutto. L’ambizione è quella di “completare la storia” di correggere la sua parzialità, cavalcando l’opportunità di una mostra internazionale che è, a detta della curatrice, “momento preciso e processo in corso” allo stesso tempo.
Ritroviamo in questa edizione così annunciata, le tracce di alcune delle precedenti: la denuncia dell’ingiustizia spaziale e la pratica militante del buon costruire come sapere condiviso contro la solitudine dell’archistar (2016, Reporting from the front, Alejandro Aravena); il valore della creatività in architettura, come pratica libera unita all’importanza pedagogica della trasmissione dei valori (2018, Free Space, Grafton Architects); il potere dell’immaginazione per contrastare le discriminazioni razziali e vivere generosamente assieme (2021, How will we live together?, Hashim Sarkis).
Cambia progressivamente il profilo del curatore, cambia anche il ruolo dell’architetto: è in declino la figura dell’autore di stampo novecentesco, tramonta definitivamente l’architetto-archistar, mentre all’architettura si chiede di allargare il suo campo d’azione, di scrutare l’orizzonte, come faceva l’archeologa tedesca Marie Reich dall’alto della sua scala di alluminio, per studiare nel deserto il mistero delle linee Natzca. Immagine tanto efficace da divenire il manifesto della edizione di Aravena.
L’interpretazione del termine “progettualità” sembra molto ampia. Da quanto annunciato, assisteremo a un’ulteriore revisione del termine architetto, che viene sostituito dall’intraducibile practicioner: una sorta di neologismo che rimanda a praxis ma anche al concetto di best practice applicato sia all’ambiente che al sociale (si sostiene che decolonizzazione e decarbonizzazione siano le azioni prioritarie per contrastare l’ingiustizia sia spaziale che umanitaria). Una maggiore vicinanza dell’architettura all’arte (e ad ogni altra forma espressiva che persegua questi obiettivi e che la renda meno rigida e più porosa) è un’altra delle prospettive di cambiamento proposte da questa edizione della Biennale.
C’è un tema di fondo che al momento appare sfumato: la questione della competenza. Architetto o practicioner come si voglia chiamare, si pone la questione del sapere ma anche del saper fare. Investe la formazione, cui questa Biennale dà particolare risalto; è il rapporto fra immaginazione e costruzione (non necessariamente edilizia ma anche edilizia). È la capacità d’incidere sui processi reali imponendo un modello diverso di produzione, di stili di vita, di nuovo patto con la natura e i suoi abitanti. È l’abilità di saper attivare i processi ma anche di avere competenza e strumenti per attuarli fino in fondo. In un momento di profondo cambiamento e di grande fragilità globale è giusto abbattere gli steccati fra le discipline più impegnate a costruire visioni per il futuro, ma d’altra parte non è delegabile a terzi la responsabilità etica e tecnica, estetica e militante di costruire un ambiente più giusto e universalmente condiviso.
Luigi Prestinenza Puglisi: “Biennale, sempre sul pezzo”
Di biennali veneziane di architettura ce ne sono state di tutti i colori. Alcune hanno sintetizzato il dibattito disciplinare del periodo, come l’edizione diretta da Paolo Portoghesi nel 1980 che fu il canto del cigno del postmodernismo. Altre hanno contribuito a lanciare i nuovi paradigmi degli anni novanta, come la edizione curata da Massimiliano Fuksas nel 2000. Altre sono state il palcoscenico per personaggi-divi come Rem Koolhaas nel 2014, il quale riuscì a fare fuori tutti i suoi colleghi con la diabolica trovata di parlare solo di bagni, finestre, impianti e scale, intesi come gli elementi costitutivi dell’architettura.
Altre biennali sono state mosce e banali e venate da qualunquismo, ma comunque un punto di riferimento per neo-tradizionalisti trinariciuti: per esempio quelle di David Chipperfield e delle Grafton Architects. Altre modaiole, come quella di Alejandro Aravena: tanto più snob quanto più barricadiera.
Adesso è il tempo del politically correct e della cancel culture e, quindi, il palcoscenico è offerto a personaggi provenienti da realtà non occidentali (ma scelti, per non scontentare nessuno, tra quelli che in occidente insegnano od operano) e, ultimamente, alla figura femminile di Lesley Lokko.
Credo che sia stata la vittoriosa intuizione del presidente per eccellenza della manifestazione, il bravissimo Paolo Baratta, ripresa dal successore Roberto Cicutto: se la Biennale vuole essere, come lo è, la più seguita esposizione di architettura del mondo, deve stare sul pezzo.
E deve, se non anticipare, almeno seguire a brevissima distanza il flusso delle mode, perché le mode non sono solo fugaci segni dello scorrere del tempo ma le snelle portatrici dei temi sui quali la comunità architettonica si riconosce, anche nella diversità delle fazioni e dei punti di vista.
Lo prova il fatto che non ci sarà architetto che conta che non andrà in Laguna e che non farà di tutto per esporvi il proprio lavoro. Viva, quindi, la Biennale, l’unico palcoscenico internazionale per l’architettura che ci è rimasto in Italia.
Immagine di copertina: Corderie dell’Arsenale, sede della mostra principale (© Giulio Squillacciotti, courtesy La Biennale di Venezia)
About Author
Tag
biennale venezia
Last modified: 10 Maggio 2023