Barra fissa a sud, passando per Braga, Porto e Coimbra. Siza e Mendes da Rocha sugli scudi; Eisenman, Koolhaas e Levete sulla graticola
Santiago de Compostela: Siza (e l’autostazione) ok, Eisenman out
Passeggiata postprandiale di un torrido giorno infrasettimanale di metà giugno. Decidiamo di raggiungere a piedi la Cidade de Cultura de Galicia. Nonostante altrove, nei dintorni, sia tutto un proliferare di boschi e lussureggiante verzura, la vegetazione piuttosto rinsecchita del parco collinare, che non ripara dal solleone, ci fa credere di compiere la risalita del Golgota…
Alla sommità, si staglia l’intrigante tettonica, scaturita dalle ben note griglie a matrice geometrico-geologica del cervellotico Peter Eisenman. Intorno, neppure l’ombra di un’anima viva (e neppure ombra tout court). Vincendo il rischio di un’insolazione, cominciamo la perlustrazione esterna: certi volumi paiono il Cretto di Burri a Gibellina, ma alla macroscala. Alcuni operai sistemano le lastre di un pavimento esterno. La gramigna s’insinua nei giunti dei pannelli fissati a secco. Sull’altro fronte, il capolinea dei mezzi pubblici e il parcheggio: nessun bus nell’arco di mezz’ora, pochissime auto. Sulla spianata centrale stanno allestendo un tendone da sagra per qualche evento; peccato che ci sarebbe un’arena open air, con tanto di passerelle, giardino e parete d’arrampicata. Tutto giace inutilizzato. Saranno tutti rintanati al fresco, là dentro negli immensi edifici?
Gli spazi dell’incubatore d’imprese sono sgombri, come se ancora mai avessero accolto un essere vivente (e un sorvegliante ci fa capire che la nostra presenza è indesiderata). Anche il bar, quanto a vitalità, non scherza. Nell’archivio e biblioteca quattro ricercatori (di numero) paiono reggere la parte, mentre le postazioni del personale (spesso ricavate nelle “faglie” dell’edificio, in spazi angusti e bui che paiono antri) sono incustodite.
Ci spostiamo nel museo, nel main building: spazi immensi semivuoti, che ospitano, a ingresso gratuito (già tanta è stata la pena per giungervi), un triplete di mostre: una manco più ce la ricordiamo, mentre un’altra presenta fotografie storiche del territorio galiziano e l’ultima, su Surrealismo e design, è pure dignitosa. Non abbiamo animo di perlustrare gli ultimi due edifici e decidiamo di rientrare verso la città. Ora, il kindergarten si è animato di qualche presenza…
Dalla nostra superficiale impressione, il ciclopico intervento, inaugurato nel 2011 a cantiere ancora aperto, e costato una follia, sembra essere un colossale flop. Isolato sulla collina, lontano dalla città consolidata, il centro culturale non intercetta i pellegrini, disposti a spararsi centinaia di chilometri a piedi per convergere alla tomba dell’apostolo in cattedrale, ma non poi ad allontanarsene di poche centinaia di metri verso il Calvario extra moenia. E pure gli autoctoni non sembrano così avvezzi a frequentarlo. Discettare, qui, di mancato “effetto Bilbao”, significa non aver capito nulla.
Non intercetta particolari flussi neppure il Centro galiziano d’arte contemporanea. Tuttavia, appartato ai margini della città storica, l’edificio di Alvaro Siza (1993) invecchia con grande dignità, con i prospetti fieramente moderni ma dalle giuste proporzioni rispetto alle adiacenze. E, ora che il rivestimento in pietra locale vira al grigio (avendo perso l’addirittura eccessivo candore astratto originario), l’inserimento contestuale rispetto all’edilizia storica è perfetto. All’interno, l’amenità è assoluta: ottima qualità della luce, dosata dal naturale all’artificiale, originalità degli spazi, sensazione di freschezza.
Ci congediamo per migrare a sud via Flixbus. Pur non figurando tra le opere griffate, la recente autostazione rivela che, nell’intera Penisola iberica, il tema è di rilevanza architettonica (mentre in Italia non compare neppure nell’agenda alla voce “infrastruttura”). Qui si ha la plastica immagine del centro di scambio intermodale, nell’elegante e funzionale connessione a ponte con l’adiacente stazione ferroviaria, dotata di tutti i servizi ai viaggiatori. Insomma, un vero e proprio luogo fisico che si manifesta con la sua presenza e la sua qualità.
Porto: wind & wine
Nella fugace tappa a Braga privilegiamo il centro storico e la scenografia di paesaggio barocca (i 580 gradini della scalinata – con cappelle sul modello dei nostrani Sacri monti – che conduce al santuario di Bom Jesus do Monte) a quella contemporanea dello stadio di Eduardo Souto de Moura (2003) nell’ex cava di granito. Ce ne rincresce, certi che anch’esso fosse all’altezza delle attese, ma il tempo è tiranno. Tuttavia, di Souto, in città vediamo l’intervento nel quartiere Carandà, dove l’architetto portoghese opera in due fasi distanti 15 anni: prima (1984) realizzandovi un mercato e poi, vista la rapida obsolescenza, trasformandone i resti in ruderi – una sorta di archeologia del presente – ed edificandovi a fianco spazi culturali e scolastici. Essendo giorno di festa nazionale, è tutto chiuso e non possiamo capire quanto il sito sia vissuto: tuttavia, l’impressione è che paiono quei luoghi che piacciono tanto solo agli architetti che se la tirano…
A Porto, pellegrinaggio obbligato nei dintorni atlantici, a Leça de Palmeira. Appressandosi all’oceano, dopo Matosinhos, il terminal crociere di Leixões (Luis Pedro Silva, 2015), avvolto dalla caligine prodotta dalle roboanti onde, pare irraggiungibile, alla mercé della vastità del mare e tutto autocompreso nella sua formalistica spirale. Quanta distanza dalle piscine di mare di Siza (1966), che sembrano lì da sempre: una vera e propria istituzione. Un piccolo drappello di bagnanti, rigorosamente autoctoni, è in coda per entrarvi, di fronte a pannelli che illustrano l’intervento, facendone capire il significato e la valenza collettiva (in un Paese dove tutti i litorali sono rigorosamente pubblici; proprio come da noi…).
Sferzati dal violentissimo vento, ci spingiamo oltre sul lungomare, fino alla scogliera di Boa Nova, dove sorge l’edificio originariamente realizzato (1963) da Siza come casa da tè. Una delle prime opere dell’architetto nativo di Matosinhos, soggetta a vincolo, che nel 2014 la restaura filologicamente: da allora è un ristorante, condotto dallo chef bi-stellato Michelin Rui Paula.
Alla porta non trovate code, tuttavia la lista di prenotazione è piuttosto lunga. Il pranzo – considerare circa 200 euro a cranio, ma almeno non vi alzate con (troppi) residui languori – vale la visita? Per molti architetti certamente, visto che il cameriere li stima in poco meno della metà della clientela e li riconosce subito, perché fanno domande sulla qualunque. Noi non siamo da meno, e apprendiamo che ogni cosa, arredi inclusi, è rimasta tal quale. Solo il meccanismo delle spettacolari vetrate a tutt’altezza è stato elettrificato. Di tanto in tanto durante il pasto, come un coup de théâtre, queste vengono abbassate e scompaiono nel pavimento, lasciando entrare anche i suoni dell’oceano che s’infrange sulla scogliera pochi metri lì sotto. Ma il dispositivo è spettacolare anche quando i serramenti sono sollevati, al punto che una cliente dà una vigorosa zuccata nel tentativo di uscire all’aperto.
L’apoteosi – compresa nel prezzo – è la visita di rito alle anguste cucine, dove in circa 40 mq si affaccendano 14 persone. A quel punto, l’architetto più non ascolta quel che gli dice l’accompagnatore, intimandogli di stare fermo nel suo cantuccio, e cerca di sbirciare il più possibile dettagli e distribuzione dei flussi.
Tornati a Porto, tappa alla Fondazione Serralves. Qui non si degusta il miglior Siza d’annata (1999), forse troppo libero di operare in un sito ampio, privo di vincoli e di contesto. Seppur gli interni siano sempre di particolare emozione, il complesso dei fabbricati in rapporto al parco con le opere d’arte (cui si è ora aggiunto un percorso soprelevato con passerelle tra gli alberi) non avvicina minimamente le vette della Fondazione Maeght a Saint-Paul-de-Vence (Josep Lluís Sert, 1964), cui sembra ispirarsi come modello.
Sarà per la scarsa simpatia che nutriamo nei confronti del personaggio, ma non ci dilunghiamo troppo sulla Casa da Música di Rem Koolhaas/OMA (2005). Numerosi skaters si esibiscono in evoluzioni sulla vasta spianata minerale che circonda l’edificio, mentre altri giovani si riparano dal sole rovente sdraiati contro le pareti a strapiombo del gigantesco monolito.
Funziona bene anche il bar seminterrato, che offre riparo alla calura. Quanto agli interni, il progetto sembra un omaggio allo spazio obliquo di Claude Parent, ma qui trattato come elemento di risulta: un intrico di scaloni, rampe, corridoi e scale mobili che avvolge da ogni lato la shoe box dell’auditorio e una sala prove. Francamente, un po’ poco, vista la cubatura totale e i costi, nonostante la nostra guida si prodighi nel narrare le meraviglie dei vari locali (o meglio, “loculi”) di servizio satelliti destinati a stage, backstage e compagnia cantante…
Infine, un esempio apparentemente riuscito di rigenerazione urbana. Sulla sponda sinistra del Douro, quella a vocazione prettamente commerciale e industriale, numerosi magazzini e opifici dismessi sono stati recentemente convertiti in spazi ricettivi messi a sistema in nome dell’edutainment e del food&beverage: ristoranti, bar, negozi, spazi per convegni, pseudo-musei e centri d’interpretazione riuniti nel marchio WOW (World of Wine). Il progetto al servizio del marketing territoriale e del vino che ha reso famosa la città, i cui più noti marchi hanno le cantine – ovviamente visitabili – tutte lì nei dintorni.
Lisbon story
Altra fugace tappa a Coimbra, dove scoviamo, nell’interessante museo della blasonata e antichissima università, dislocato in più sedi, il recente allestimento di una wunderkammer: per capire che cosa fosse l’erudizione in età moderna, alla faccia dell’odierna specializzazione…
Giungiamo a Lisbona in auto di notte via Belém, dove il Centro culturale di Gregotti Associati International (1992) fa bella mostra di sé, confermandosi uno dei progetti contestualmente più riusciti dello studio milanese (sarà perché qui vi collaborò Manuel Salgado?).
Poco distante, è assai invitante il Museo di arte, architettura e tecnologia (MAAT) di Amanda Levete (2016): con le sue forme sinuose e la bassa copertura dolcemente ondulata e calpestabile, l’attrazione di salirgli sulla gobba, affacciata sul Tago, è irresistibile. Torniamo il giorno seguente per visitarlo, ma la delusione è cocente: un contenitore vuoto, con un pessimo rapporto tra cubatura costruita e superficie utile interna. Non parliamo poi del contenuto, del tutto inconsistente, che non tentiamo neppure di illustrarvi ma che permette di stabilire un primato, quello del museo nazionale più veloce da visitare al mondo: alzi la mano chi è riuscito a soffermarvisi più di 20 minuti. Meglio, a tal segno, ammirare i restaurati interni dell’adiacente Central Tejo (il biglietto è cumulativo), dal 2006 nota anche come Museu da Electricidade: uno straordinario esempio di architettura industriale della prima metà del Novecento (magari, anche in questo caso, senza preoccuparsi troppo delle mostre d’arte che ospita).
Poco distante, a metà strada rispetto al monastero dos Jerónimos patrimonio Unesco, ecco stagliarsi l’esatto contraltare del MAAT: il Museu dos Coches (Paulo Mendes da Rocha, MMBB Arquitetos e Ricardo Bak Gordon, 2015). Un volume scatolare enorme, sollevato su pochi possenti pilotis, essenziale e rigoroso ma al contempo rude, che rivela una monumentalità antiretorica. La Lonely Planet ne parla come del museo più visitato del Portogallo. Non ci è parso ma, anche se come noi non siete amanti del genere, una visita è d’obbligo. Le due scarne e gigantesche sale parallelepipede nulla concedono all’immaginazione e assolvono pienamente alla funzione di mero contenitore: un sistema di ballatoi garantisce una vista sinottica dall’alto che permette di farsi un’idea, con la parata di carrozze dispiegata ai vostri piedi, ordinata tipologicamente e cronologicamente. Anche qui, l’esperienza può essere breve, ma è di sicuro intensa.
Infine, da lontano, transitando sul monumentale ponte Vasco da Gama (1995), scorgiamo l’area che ospitò l’Expo ’98. Sembra tutto in ordine, un quartiere integrato alla città e vivace: viaggiano pure gli ovetti della telecabina! Giungiamo alla stazione di Oriente, di Santiago Calatrava, realizzata per l’Expo. L’impressione è positiva, e nuovamente apprezziamo, come a Santiago, il disegno che tiene insieme scalo ferroviario, stalli per le corriere e, vieppiù, spazi sotterranei di accesso alla metropolitana.
Non di sola architettura vive l’uomo
È vero. Abbiamo tralasciato, solo per citare i vip, i Gonçalo Byrne, i Carrilho da Graça, gli Aires Mateus e, ancor prima, la lezione seminale di Fernando Távora e l’epopea delle brigate SAAL (Serviço ambulatório de apoio local) a valle della rivoluzione dei garofani del 1974. Ma occorre anche preservare gli equilibri di coppia. E poi c’erano tante altre belle cose da fare: come percorrere a piedi, in tre/sei giorni, la “Rota vicentina”, il cosiddetto Cammino dei pescatori lungo le meravigliose scogliere atlantiche tra Alentejo e Algarve. Oppure, ingozzarsi di bacalhau, sardinhas assadas e pastels de nata.
Immagine di copertina: ristorante Boa Nova, Leça de Palmeira (© Adele Muscolino)
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Last modified: 13 Luglio 2022