Un giorno eravamo tutti fuori al balcone a cantare e il giorno dopo ci siamo ritrovati rinchiusi dietro un ponteggio
Non si fa nessuna fatica ad arrivare a Ponteggia, la città dei ponteggi.
D’altronde non esiste una sola Ponteggia, ne esistono tante. Fate attenzione: potrebbe essere il nuovo nome della città dove state.
Non sono cambiati gli abitanti e non sono cambiate le strade. I cartelli, gli incroci, le aiuole calpestate, i sottopassi e i semafori non si sono spostati di un millimetro.
Quelle sparite sono le facciate degli edifici con i loro basamenti, le finestre e i balconi, i marcapiani, le grondaie, i terrazzi e le verande. E ancora: i panni stesi, gli sguardi dietro i vetri, le crepe, «x ama y»; tutto scomparso dietro chilometri quadri di reti in tessuto. Reti a maglia stretta, verde militare ma pure bianche, nere o blu, decorate da réclame, aziende con nomi senza fantasia, acronimi, sigle misteriose.
Come sia nata Ponteggia, il viaggiatore può chiederlo a uno di quelli col caschetto giallo che s’incontrano lungo i suoi viali deserti e impolverati.
“È successo tutto molto in fretta”. Così inizia il suo racconto. “Una reazione a catena rapida e inarrestabile. Costruita la prima impalcatura, subito, come per gemmazione ne è nata un’altra subito accanto. E poi un’altra ancora e poi ancora. Era tutto uno sferrare d’incastri, recinzioni, luci intermittenti”. Una frenesia febbrile, come il più contagioso dei virus.
Dal passaparola tra inquilini e avvocati ai supplementi-guida dei quotidiani, mastri conniventi con amministratori di palazzo, geometri indispensabili come chirurghi in tempo di guerra. Ditte neo-edili spuntate come funghi prataioli. E assemblee, ripetute e interminabili assemblee condominiali presenziate da sconosciuti uomini in giacca, cravatta e tablet.
“Tutte le case si ritrovarono in mezzo a una foresta di tubolari metallici, ma anche gli ospedali, le scuole, i cinema, i musei. Persino le chiese”.
Eh sì, un giorno eravamo tutti fuori al balcone a cantare e il giorno dopo ci siamo ritrovati rinchiusi dietro un ponteggio.
“Finché un mattino si alzò un libeccio così violento che tirò giù quattro ponteggi sulla via principale. Dissero che non eravamo capaci di farli abbastanza solidi quei ponteggi, allora si assunsero altri operai che avevano seguito un corso di aggiornamento. E gli ingegneri della sicurezza si moltiplicarono finché decisero che, per sicurezza, ogni ponteggio andava fissato a quello accanto”.
Così a Ponteggia nessun ponteggio fu più libero. E per smontarne uno andava smontato anche quello accanto e quello accanto ancora. La città divenne un unico, interminabile, infinito ponteggio.
Fu a quel punto che il Governo sparì.
Gli amministratori di condominio andarono in ferie e non tornarono più. Alcuni di quelli in giacca e cravatta furono rinchiusi nei sottoscala. Là scontarono la loro pena, nel girone dei locali caldaia. Altri fecero in tempo a rimettersi una t-shirt. I geometri, oramai inutili, comprarono una laurea breve in architettura-edile e si diedero al design. Le neo-edili divennero ex-edili e licenziarono tutti. I quotidiani tornarono a pubblicare supplementi di cucina.
Intanto le reti verdi ingiallirono. Le bianche annerirono più delle nere. Le blu intristirono.
Sulle mille e più mille Ponteggia calò il silenzio. Niente più sferragliare d’impalcati e montacarichi in perenne saliscendi, nessuna chiave a stringere nodi, sul selciato solo migliaia di giunti sotto telai oramai traballanti e gru abbandonate.
Ponteggia, la città dei ponteggi e delle facciate scomparse, dopo aver sollevato impalcati, ora solleva domande. Com’è potuto capitare? Cosa ne faremo ora di queste città? Possiamo almeno liberare gli abitanti? La ruggine, infatti, ha assaltato ogni giunto, tra cedimenti, mezzi crolli, groviglio di ponti e intrecci di controventature che imprigionano gli inquilini.
Per questo a Ponteggia non si vede più nessuno.
Solo operai in fuga sui trabattelli.
Immagine di copertina: ponteggi a Bologna (per gentile concessione del fotografo Gianluca Rizzello, che ha operato una lettura del fenomeno della ristrutturazione delle facciate nella sua città di residenza. Il lavoro di Rizzello, classe 1978, è caratterizzato dall’attenzione alle problematiche di carattere ambientale e sociale: in particolare, antropologia urbana, studio del paesaggio e trasformazioni urbanistiche)
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L'archintruso
Last modified: 11 Maggio 2022