A 6 anni dalla scomparsa, l’eredità dell’architetta visionaria sta diventando un marchio omologante nelle mani del socio di studio Patrick Schumacher
Esplorare il futuro è stato il tema chiave nella vita di Zaha Hadid (1950-2016). Tutta la sua persona emanava futuro: dagli abiti, ai vistosi gioielli, al pensiero camaleontico, alla caparbietà che l’ha vista impegnata in sfide di prim’ordine, tantissime, con l’unico obiettivo di superare i limiti imposti dalla razionalità aprendo orizzonti inaspettati al campo del progetto. Quest’ultimo avrebbe tessuto in maniera univoca la sua esistenza in una sorta d’incantesimo che si è interrotto prematuramente, quando l’architetta anglo-irachena era nel pieno della notorietà.
Una corsa contro il tempo, quella di Hadid, perché il proprio tempo viene considerato povero di stimoli nella banalità di un percorso troppo scontato, fatto di spazi pubblici ingessati, di strade fin troppo note. Hadid voleva di più, non era a suo agio nel proprio tempo e perciò, sin dagli esordi, attinge a piene mani alle visioni spiazzanti delle avanguardie russe, a certe turbolenze visive che allertavano in direzione di nuove pregnanti spazialità, vogando controcorrente, sempre al limite con la realtà.
Come i russi, realizza disegni stupefacenti, fatti di segni vigorosi, specchio del suo carattere per niente facile ma profondamente umano. Disegni come opere d’arte (impossibile rimanere indifferenti) che mettono in azione il futuro: città rimescolate nella loro ragion d’essere, edifici a testa in giù, tutto all’insegna di prospettive multiple, dove a dominare è il movimento, lo spiazzamento improvviso della vista, come se ogni volta, girato l’angolo, si rischi di perdere il bandolo dell’insieme. Un’avventura la vita di Hadid e del corpo muto di queste opere rimaste sulla carta con la maestria di un’artista vera, una donna-architetto-matematico che è riuscita a imporsi nello scenario internazionale come enfant terrible dell’architettura del XXI secolo.
Progetti e paesaggi urbani per dare energia
Ma dopo anni di peregrinazioni sulla carta, Hadid riuscirà a vedere molti di quei segni tradotti in realtà, accolti con entusiasmo da un pubblico impaziente di toccarne con mano le vedute caratteristiche. Perché quelle tele così rarefatte sin dagli esordi sono state il campo privilegiato per sperimentare nuovi spazi di vita per il sociale. Gli altri meritavano qualcosa di speciale. Questa la convinzione di Hadid: “La finalità è quella di fornire spazi pubblici potenzialmente in grado di dare piacere. […] Credo che a volte si perda di vista quale sia il nostro reale obiettivo. Il problema di fondo è in realtà quello di aggiungere qualcosa alle nostre vite”. Nella maggior parte dei casi, l’intento è quello di “fare paesaggio”, di costruire paesaggi urbani gratificanti la cui generosa spazialità inglobi ad infinitum la città e restituisca energia viva dall’interno.
Molti i risultati in questa direzione: dalle prime geometrie rampanti ai progetti maturi sempre aperti all’innovazione, fino alla revisione dell’approccio progettuale. È il caso del King Abdullah Petroleum Studies and Research Center a Riyad (2009-17), il primo progetto di Hadid a essere interamente guidato dalle tematiche della sostenibilità senza rinunciare a una geometria ingegnosa (ispirata alle bolle di sapone e ai favi che si trovano in natura), dove Hadid ha usato i suoi spazi tipicamente fluidi per abbattere le barriere e incoraggiare la mescolanza sociale in una cultura in cui anche le tradizioni architettoniche tendono a separare i sessi. O ancora, nel caso dello Sleuk Rith Institute a Phnom Penh (2014), per ora rimasto sulla carta, pensato per ospitare un vasto archivio di documenti sul genocidio cambogiano degli anni settanta in cui persero la vita due milioni di persone: qui Hadid, per la prima volta, ha usato il legno per creare un’atmosfera calda e accogliente, ispirandosi al modo in cui gli antichi templi generavano forme intricate a partire da geometrie semplici.
Parametricismo + BIM = formalismo
Contemporaneamente, in progetti come il Dongdaemun Design Plaza a Seul (2007-14) un centro culturale ed espositivo, ci si accorge di come la voglia di futuro cominci a cedere il passo al formalismo frutto dell’utilizzo sempre più spinto dei programmi informatici. Si tratta, infatti, del primo edificio pubblico in Corea progettato con l’aiuto del Building Information Modeling, che ha permesso alle complesse ondulazioni di diventare realtà. Processo di digitalizzazione incoraggiato e supportato da Patrik Schumacher (1961), il gelido compagno di viaggio di Hadid, pioniere dell’architettura parametrica, votato alla sperimentazione ma anche alla pura ambizione professionale.
Il parametricismo diventa infatti il leit motiv per realizzare architetture “cangianti”, che dovrebbero calzare a pennello come un tailleur ma che spesso contengono forzature estetiche e quasi fanno traballare la vista e i sensi (“ti guiderà e ti dirà dove sei”, afferma soddisfatto Schumacher a proposito dell’aeroporto di Pechino inaugurato nel 2019…). C’è da dire che Hadid era molto critica nei confronti del lavoro speculativo di Schumacher (autore, tra l’altro di testi come Autopoiesis of Architecture e Advancing Social Functionality via Agent-Based Parametric Semiology), come più volte ha avuto modo di dichiarare fino a soprannominarlo “Patrik-metricism” e ad apostrofarlo in pubblico in maniera piuttosto accesa. Secondo Schumacher, invece, Hadid era un “genio d’intuizione” ma inconsapevole del potere della propria visione che lui stesso sarebbe poi riuscito a concretizzare con le teorie parametriche. Peccato che le stesse stiano finendo per essere un fine e non un mezzo come, invece, dovrebbe essere per fare dei reali passi in avanti.
Ma tant’è: dal fatidico 31 marzo 2016 è Schumacher a condurre il gioco con uno studio di 400 professionisti – provenienti da 55 nazioni – e un numero cospicuo di opere, all’epoca ancora in fase di realizzazione, in 21 paesi del mondo, di cui qualcuna non realizzata con Hadid ancora viva, come nel caso del tanto discusso stadio di Tokyo che, dopo aspre polemiche locali, ha dovuto cedere il passo alle mani navigate di Kengo Kuma per un cospicuo ridimensionamento. Segno che nello studio di Hadid i tempi stavano cambiando.
Patrik Schumacher, dal futuro alla “futurologia”
In sostanza, il futuro, tanto agognato da Hadid, rischia di diventare “futurologia”. Prova ne sia la mostra attualmente in corso alla Galleria HKDI di Hong Kong (fino al 3 aprile 2022). In “Vertical Urbanism”, infatti, l’ambizione sperimentale di Schumacher è protagonista con la messa a punto di una vera e propria teoria per l’urbanistica del futuro, dove a troneggiare sono modelli di grattacieli “ad alta densità” (“i tempi sono maturi per sfidare la tipologia standard delle torri e chiedere che anch’essa partecipi alla ristrutturazione generale della società dal fordismo al post-fordismo”), in cui la quantità di parametri messi in gioco sfida certamente il tempo ma resta una colta esercitazione povera di contenuti.
Schumacher parla di “libertà connettiva spaziale dei canali e dei vuoti urbani”, come se Internet a tal proposito non avesse già fatto abbastanza e ci fosse, invece, bisogno di una tale “materialità” di contenuti… Tanto varrebbe godersi le pennellate di Hadid, i suoi sogni rimasti sulla carta, i suoi tanti vicoli ciechi ma vibranti di passioni ed emozioni. Per fortuna arriva la buona notizia che la Zaha Hadid Foundation, l’organizzazione di beneficenza fondata nel 2013 dalla stessa Hadid, ha annunciato l’intenzione di creare nel cuore di Londra una galleria permanente, un museo e un centro studi. Ospiteranno una collezione di 10.000 opere di Hadid, da dipinti e modelli a gioielli e mobili, e conterranno anche uffici destinati a gestire programmi di ricerca, eventi e borse di studio per aspiranti architetti, soprattutto per quelli provenienti dal terzo mondo. Sarà guidata dal neo-direttore Paul Greenhalgh, storico dell’arte noto per aver diretto anche il Sainsbury Center di Norman Foster presso l’Università dell’East Anglia.
Hadid non c’è più. La sua anima è assente già da un po’ di tempo e Schumacher è ora libero di strafare chiudendo l’architettura nel forziere corazzato del calcolo computerizzato, lasciando dietro il sociale e tirando fuori tutta la sua verve da vorace promotore immobiliare: il capitale privato che deve governare le città è una delle ultime tesi che gli hanno meritato l’appellativo di “Trump dell’architettura”. Tesi che stanno facendo scandalo poiché l’obiettivo sarebbe quello di abolire l’edilizia sociale e privatizzare strade, piazze e parchi.
Sempre più un marchio di fabbrica
Nel frattempo Hadid sta diventando un marchio di fabbrica per progetti più o meno sensuali e all’avanguardia, immortalati dall’immancabile linea curva che ha finito per ammortizzare il piglio creativo dei lavori iniziali omologandone l’apparenza. Nella mostra citata, infatti, accanto al gruppo di progetti iniziali di Hadid tra cui il mitico Peak club per Hong Kong, troviamo quelli del gruppo di ricerca Computation & Design (ZHA Code): un programma di collaborazione con le principali istituzioni scientifiche che esplora le innovazioni nella robotica, intelligenza artificiale e fabbricazione digitale, con un sottofondo di sostenibilità in merito ai materiali e alle fonti di energia utilizzate. Spiccano in particolare i progetti per le megalopoli cinesi: Infinitus Plaza a Guangzhou (2016-21); Unicorn Island Masterplan a Chengdu (2018-in corso); sede centrale di Oppo a Shenzhen (2019-in corso) Cecep Shanghai Campus a Shanghai (2020-in corso), Torre C a Shenzhen (2020-in progetto).
Immagine di copertina: Zaha Hadid di fronte al Riverside Museum di Glasgow, in Scozia (© Jeff J Mitchell)
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Last modified: 23 Marzo 2022