Il personale ricordo di Carlo Olmo di un architetto intellettuale, leggero, ironico e aspro, profondamente legato a Trieste, sua città natale
La cifra distintiva di Luciano Semerani era uno strano mix di leggerezza e ironia e una non marginale asprezza. Quando a Torino preparavamo il testo che resta forse il suo più intimo e profondo, L’altro moderno (Umberto Allemandi, 2000), e venivamo da una frequentazione diffidente (io ero, in fondo, uno storico non architetto, non schierato…), ci trovammo a discutere su quasi ogni frase. Due acribie a confronto. Forse la sola strada che avevo per entrare in un universo progettuale, in gran parte condiviso con Gigetta Tamaro, che risultava insieme iconico e ogni volta unico.
I ricordi diventano sempre pacificatori. Sarebbe un peccato, perché i progetti di Luciano non lo erano. Non lo era lui come docente, certo compreso in una cerchia che oggi non ha più neanche un nome, ma con lo sguardo distaccato di chi non vive quell’appartenenza. In una Trieste cui ha dato un’impronta rara per un unico architetto: dal terminal Rogers (2008, me ne raccontò la genesi e la ragione, quasi fosse un segreto da custodire) all’Ospedale e alle cliniche universitarie di Cattinara (1965-83), dal piano per il centro storico (1969-73), al terminal automobilistico del Silos (1987). Ma quel rigore dell’indagine sul processo progettuale, ogni volta ripresa quasi da capo, la si riscontra anche nel Municipio di Osoppo (Udine, 1979-84), nel Grande albergo di Lubiana (1989), soprattutto nell’Isola dei granai a Danzica (1989) e nel complesso monumentale della basilica di Aquileia (2002).
Luciano era un architetto intellettuale, forse tra gli ultimi, non solo e non tanto per la sua partecipazione a riviste, per la direzione della fondazione Masieri (per la Galleria di architettura contemporanea), per le mostre che ha curato e allestito. Il suo essere architetto intellettuale nasceva da una capacità, oggi quasi depositata in uno scaffale polveroso, di problematizzare il progetto che si accingeva a fare, di ricercarne radici, esempi, comparazioni, di stabilire una gerarchia distributiva alle volte anche troppo rigida. Non è un caso che tante letture delle sue opere danno grande spazio al tipo, al riconoscimento, alla scuola cui indubbiamente apparteneva. Ma era quel che Semerani doveva, in qualche modo, ad un’appartenenza.
Se si entra oggi in una delle sue opere ci si accorge di quello che dovrebbe essere quasi un viaggio nella mimesis; una continua messa in discussione dei pre-giudizi con cui ci si avvicina a quell’architettura.
Luciano è mancato in un’opera da lui progettata e costruita. La vita spesso ci offre passaggi quasi misteriosi, più vicini a misteri eleusini che alle tristi procedure e protocolli sanitari di oggi.
Aristotele scrive: Tous teloumonous ou maqein ti dein alla paqein kai diateqhnai, dhlonoti genomenous epi thdeious
(Gli iniziati non devono apprendere qualcosa, ma sentire un’emozione e trovarsi in una certa disposizione di animo, evidentemente perché sono stati predisposti a questo)
Senza cercare del tutto improbabili analogie, credo che Luciano fosse predisposto a questo, non solo nel passaggio più difficile per tutti, ma perché proprio dentro quella ritualità che certe sue architetture sembrano evocare, esisteva come, dietro le mura di Eleusi, un pensiero non così funzionale, lineare, quasi iconico. Luciano era predisposto a sorprendere anche quando, come ne L’altro moderno, il lettore si aspetta che entri in quella triste bagarre sulla modernità, che cerchi un’altra genealogia, e si trova in un testo in cui invece modernità e complessità si scambiano le maschere.
Ci (e mi) mancheranno la sua ironia e la sua durezza, il suo coraggio di andare a fondo nel meccanismo del progetto e contemporaneamente il suo vivere l’architettura da fuori: proustiano forse, più che sveviano. A Trieste, uno dei luoghi chiave se si crede che le città abbiano un’anima è il Joyce Museum. È l’ultimo luogo che Luciano mi ha consentito di veder con i suoi occhi. E, pur se lontano dal suo pensiero insieme illuminista e pop, in pochi luoghi ho visto Luciano così a disagio e affascinato.
Certo Trieste è anche questo, e Luciano era un cittadino profondamente legato all’anima della sua città, in cui il pensiero razionale viene sfidato non solo dalla letteratura, ma dall’orografia, dalla bora, dal porto e dalle sue quasi infinite vicende, di viaggio, emigrazione, abbandoni. E non solo: non è certo un caso che la risiera di San Saba, l’unico campo di concentramento italiano, fosse a Trieste.
Come Trieste, Semerani si portava dentro quelle alte facciate segnate da finestre eguali, quadrate, testimoni straordinarie di un luogo che negava la storia e avrebbe alimentato una memoria dura, conflittuale, mai pacificata. E non sono certo come ricordi da rimuovere. Su quel palinsesto, quasi dal pittore che era, Luciano ci ritornerà, persino nelle facciate dell’ospedale in cui è mancato.
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Last modified: 28 Settembre 2021