Un racconto a tre voci è la prima puntata di un viaggio attraverso la nuova generazione di fotografi italiani, tra ciò che è rimasto del passato di Basilico, Guidi e Ghirri e le nuove forme di indagine ed espressione
Con questo primo racconto a più voci ha inizio una ricognizione sullo stato della fotografia in Italia per raccontare il lavoro di chi ha scelto questo strumento di lettura e interpretazione della città e del paesaggio impegnandosi nella sperimentazione di nuove forme d’indagine, espressione e comunicazione.
La molla di questo “viaggio” è la volontà di comprendere cosa sia rimasto della grande tradizione della fotografia italiana e di una stagione che ha descritto le grandi trasformazioni del nostro territorio attraverso lo sguardo nitido di autori che, non a caso, sono più volte citati nel racconto di chi è attualmente impegnato a percorrere nuove strade. La grande storia della fotografia italiana è infatti segnata da nomi come Gabriele Basilico, che ha descritto come pochi il paesaggio industriale e la solitudine degli edifici, o come Guido Guidi e Luigi Ghirri, grandi narratori del paesaggio italiano, e, ancora, da Letizia Battaglia, impegnata a descrivere la cruda violenza e il sangue versato sulle città durante le guerre di mafia.
Questa prima puntata si basa sul racconto di tre autrici che hanno scelto il medium fotografico contaminandolo con altri strumenti di comunicazione o sperimentandolo in differenti possibili declinazioni. Si tratta di tre percorsi che, partendo dal nord, giungono fino al sud dell’Italia e che, con sensibilità e sguardi diversi, sono impegnati a descrivere i paesaggi e gli spazi della città conducendo una lettura talvolta molteplice che senza limitarsi al mezzo fotografico fa anche tesoro di una forte presenza all’interno dei social e delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie e dall’immediata condivisione.
L’incontro tra social network e fotografia rappresenta senz’altro una delle più interessanti novità nell’attuale racconto delle città, poiché la presenza su uno o più spazi social amplia il pubblico, rende possibile l’aggiunta di commenti che fanno sintesi tra parola e immagine e, soprattutto, come ben esplicitato dalle parole di Antonia Marmo (Roma), trasforma il significato del “fermo immagine” laddove l’immediata condivisione cristallizza l’immagine rendendola immodificabile. Il racconto della città, come dimostra la ricerca sullo spazio urbano condotta da Laura Fogazza (Palermo), è reso possibile anche dallo studio del movimento e dalle sperimentazioni basate sull’uso di strumenti fotografici e tecniche di stampa e sviluppo differenti o, ancora, si avvale della precisione che Claudia Corrent (Bolzano) mette in mostra nelle foto che descrivono il suo percorso di viaggio.
Qual è il percorso che ha spinto ciascuna di voi a scegliere la fotografia tra i vari strumenti di espressione e comunicazione oggi disponibili?
Claudia Corrent (C.C.) È stata una scelta abbastanza naturale e spontanea. Le immagini, per me, hanno sempre avuto una forza e un’immediatezza che altri mezzi non avevano. La fotografia è una meravigliosa forma culturale dotata di un suo linguaggio con codici interpretativi complessi; dato che siamo sommersi da immagini, conoscere quei codici e capirli diventa una sfida e una base per comprendere la realtà.
Antonia Marmo (A.M.) Il mio è un percorso anarchico e laterale: non ho studiato fotografia ma architettura. Non uso una macchina professionale e non lo faccio di mestiere. Vi sono giunta partendo dalle nuove modalità di comunicazione legate ai social network; volevo raccontare il mio sguardo e quello che incontro nelle mie attività quotidiane e ho scelto di farlo abbinando alle parole l’uso di un iPhone che mi permette di fermare istantaneamente un’immagine e di condividerla con una breve didascalia in tempo reale. L’immediatezza del mezzo è centrale, non c’è lavoro di postproduzione, anche se m’interessa mantenere un tono di trattazione coerente, sia con la luce sia nella scelta di temi e soggetti. Alla fine, come dice Sebastião Salgado, per fare una buona fotografia conta quello che hai letto, quello che hai visto, gli incontri e le esperienze che hai fatto, i posti dove sei stato…
Laura Fogazza (L.F.) Viaggio molto e il mio fotografare nasce da lì; fin da bambina, infatti, di tutti luoghi in cui andavo scrivevo, disegnavo o fotografavo. Allora avevo una Kodak Instamatic e, da grande appassionata di fantascienza, chiamavo “ufo” le infiltrazioni di luce che inesorabilmente apparivano nella composizione della mia immagine. Poi col tempo, i viaggi, le esperienze personali, le altre città e gli altri amori hanno allargato i miei sguardi, ma il mio approccio è sempre stato quello di uno sguardo emotivo sui luoghi. Amo e detesto la mia città; la amo perché è ricca e, dopo tanti anni, ancora sconosciuta, la detesto perché non è libera e non rende liberi e perché mi sembra sempre una città ferita e in perenne tentativo di guarigione.
Qual è l’approccio con la fotografia che caratterizza ciascuna di voi?
C.C. Quando lavoro su progetti legati a luoghi e paesaggi ho un approccio documentario, mentre se ragiono su temi più antropologici e sociali l’approccio diventa più intimo. Tuttavia non c’è una differenza netta tra i due modi di lavorare, la base è sempre legata a una curiosità, al desiderio di indagare la realtà per comprenderla meglio. Sento molto vicina un’affermazione di Mario Giacomelli quando diceva: “Io sono nato piccolo e rimango piccolo, con idee piccole; non c’è bisogno di essere grande, (…). Forse la fotografia vera, che noi vediamo, che anch’io guardo, è il minimo, l’indispensabile per ricordare qualcosa; quello che c’è di grande nella fotografia non è mai grande quanto quello che io pensavo di dire in realtà, quello che ho vissuto in quel momento”. Ecco non cerco immagini sensazionali ma, al contrario, uno sguardo quotidiano, piccolo, marginale che a volte può essere carico di poesia o di suggestioni.
A.M. La fotografia è un linguaggio che uso per comunicare e tracciare un itinerario di temi e interessi. Non ne faccio una questione di tecnica, di “purezza” del mezzo e del risultato, ma di medium di espressione da unire ad altri in maniera libera e trasversale. In questo, l’uso del cellulare, che vuol dire interconnessione diretta e immediata è quasi necessario. La mia non è una fotografia di “pulizia”, m’interessa la storia, costruire e fermare per immagini un racconto. La fotografia mi permette di fissare e poi tornare a vedere cose per inserirle all’interno di una narrazione continua; in definitiva, la fotografia è per me un mezzo di conoscenza del mondo.
L.F. La fotografia è diventata una sorta di diario di sperimentazioni e riflessioni molto personale, al dl là dei generi precostituiti. I miei lavori, infatti, non sono facilmente classificabili in un’unica tipologia né per soggetti, né per tecniche o strumenti usati. In realtà la fotografia è un mezzo, una lente, che utilizzo per cercare di capire me stessa e ciò che mi circonda, indagando, allo stesso tempo, i linguaggi che conosciamo o creiamo per dare un senso a ciò che viviamo.
Qual è la lettura della città e del paesaggio che scaturisce dalle vostre foto? Quale ricerca espressiva state conducendo in questo momento?
C.C. La base concettuale e progettuale dei miei lavori fotografici legati al paesaggio è incentrata sulla ricerca e sulla mappatura dei luoghi. Trovo molto interessante il concetto di paesaggio culturale, di genius loci. Mi interessa capire la relazione tra le persone che abitano i luoghi e i luoghi stessi. La domanda che mi pongo è sempre la stessa: “C’è una forma di riconoscimento/amore tra le persone che abitano e i luoghi? Le persone amano e sentono proprio il paesaggio? C’è una correlazione tra i due? E, ancora, qual è il senso del luogo?” Ci sono poi due livelli: da una parte la ricerca per restituire un’immagine della città che sia personale, legata al sentimento che quella città mi offre; dall’altra c’è un più meticoloso lavoro di mappatura che consiste nel riprendere alcuni simboli della città, come le piazze e le strade, e farne un lavoro che è, a volte, comparativo. Il lavoro su Venezia “Insulae” è un esempio. Cercavo di restituire una dimensione più umana, quasi metafisica, sospesa e silenziosa rispetto all’immagine che, di solito, offre una città che si vende ai turisti. In questo lavoro ho scattato tantissime foto cercando una posizione dall’alto in modo da riprendere le persone come se fossero “avvolte” nello spazio che abitano. Attualmente sto ragionando sull’idea di confine, di limite, di sublime in natura, cercando alcuni punti d’interesse nel paesaggio che vorrei riportare anche in fotografia.
A.M. La città e il paesaggio si confondono tra livelli di lettura e non esprimo mai un giudizio di valore, ritraendo quello che è oggettivamente riconosciuto come bello. Ogni cosa può rivelare la sua bellezza, a ogni scala. Mi piace mescolare soggetti “alti” e “bassi”, fino a volte a soffermarmi sul frivolo, il dettaglio, il paesaggio minimo, intimo, quasi familiare. La fotografia mi permette di lavorare con lo sguardo, di concentrarmi su quello che è stato e su quello che accade oggi, sulle “materie”, sulle architetture, sulle persone e le relazioni tra esse. La città su cui lavoro è fondamentalmente Roma; il mio sguardo è necessariamente quello di una “straniera’”. Ci riverso il sud delle mie origini e le mie passioni. Sono cresciuta in mezzo a stoffe e fili, continuo a cercare strati e tessuti, a cucire e tenere insieme cose, elementi, storie… Qualsiasi luogo può rivelare dimensioni inaspettate, non è mai questione di scala o di soggetto, ad attrarmi, che sia una grande dimensione o un dettaglio, è sempre la possibilità di svelare piani di senso e visione; per me, farlo attraverso la fotografia significa farlo in modo non esplicito, aprendo un focus che rimanda alla libertà dello sguardo di chi osserva.
L.F. Attraverso i miei progetti fotografici miro a leggere la città per esprimerne l’aspetto emozionale ed immaginativo. Ogni luogo è un pre-testo su cui si agganciano rimandi a storie possibili o improbabili, vere o immaginifiche, personali o conosciute dai più. Fotografo ciò che mi fa riflettere o immaginare e, spesso, cerco di fotografare anche quello che non vedo. La fotografia, infatti, per me non descrive solamente ma stravolge, metamorfizza la realtà; è un incontro, un evento, una vibrazione tra me e i luoghi, le persone, le cose. In quest’ultimo periodo ho ripreso a utilizzare l’analogico sia con reflex a pellicola, sia con polaroid e pinhole. Ho anche iniziato a realizzare diverse immagini utilizzando le antiche tecniche di stampa come la cianotipia e altre; ho ripreso a stampare in camera oscura. Per quanto riguarda i temi, in fondo, sono sempre gli stessi, anche se spero di declinarli con una sempre maggiore consapevolezza e curiosità: gli stereotipi, le diverse articolazioni tra realtà, finzione e rappresentazione, i luoghi e le loro storie emozionali, la riflessione sui generi e sulle identità mutanti o meno, sull’altro e sul concetto di diversità.
Esiste una scuola italiana della rappresentazione della città? Se sì, in che cosa si differenzia rispetto ad altre scuole?
C.C. Come scriveva Roberta Valtorta in “Luogo e identità nella fotografia italiana contemporanea”, sicuramente c’è stata una scuola italiana legata al paesaggio che ha avuto la sua massima forza negli anni ottanta e novanta. Questa “scuola” nasceva per descrivere le modificazioni dei luoghi dovute al passaggio dalla società rurale a quella postindustriale. Mentre l’Italia cambiava, alcuni fotografi – come Basilico, Ghirri, Guidi, Jodice – hanno iniziato a indagare il senso dei luoghi interrogandosi sul paesaggio e sulla sua trasformazione. Credo che la scuola italiana si distingua dalle altre per caratteristiche culturali che sono legate alla sua storia e al suo territorio. Questi autori riflettevano sui mutamenti di un paesaggio frammentato e postmoderno, cercando di raccogliere i segni e i simboli di questa trasformazione.
A.M. L’Italia ha prodotto una narrativa della città attraverso la fotografia in modo originale e indipendente; questo sia per la forza del patrimonio da rappresentare, sia perché siamo trasversali e laterali per condizione naturale. Mi vengono in mente tanti nomi che sono parte della nostra cultura, che continuano a influenzarci: Ghirri, Berengo Gardin, Scianna, Basilico, Jodice, Cerati, Fontana, Chiaramonte, De Biasi, Branzi. Tanti i percorsi e le poetiche, ma credo che a caratterizzarci sia la capacità di cogliere e restituire un’essenza, astraendola fino a farla diventare opera totale, sentimento universale. Nell’attuale panorama italiano c’è una distinzione sempre minore tra chi fa il “mestiere di fotografo” e chi invece “fotografa” nel suo quotidiano; si va sempre più verso un lavoro che è poco “filtrato” e molto influenzato dal modo in cui si percorre e si vive la città.
L.F. Non c’è dubbio che la “scuola italiana di paesaggio” degli anni ottanta e novanta sia stata importantissima: grandi fotografi come Basilico, Chiaramonte, Cresci, Ghirri, Guidi, Iodice, Salbitani, Barbieri, Bossaglia, Castella, Fossati, Garzia, Leone, Radino, Tatge, Ventura e molti altri hanno profondamente rinnovato il modo di fare fotografia urbana e di paesaggio. Intellettuali che si sono interrogati sulla frattura tra l’uomo contemporaneo e il mondo da lui stesso costruito; autori impegnati dal punto di vista civile che hanno collaborato con scrittori e letterati nei diversi progetti portati avanti anche per committenze pubbliche; autori dalle molteplici e importanti influenze culturali, arte concettuale, land art, pop art, la fotografia americana di Evans, Friedlander e i New Topographics e tanto altro. Inoltre è importantissimo, e per me davvero interessante, il rapporto e le influenze che alcuni di questi fotografi intrattengono con la visione e rappresentazione dei luoghi e del paesaggio urbano nel cinema, a cominciare dal cinema neorealista, nonché il rapporto tra la fotografia di paesaggio italiana e la pittura metafisica del Novecento.
Claudia Corrent (Bolzano 1980), laureata in Filosofia all’Università di Trento, ha frequentato il corso di Visual urban photography di Francesco Jodice, due corsi di fotogiornalismo organizzati da Parallelozero, un workshop con Simon Roberts, un masterclass da Fabrica – Treviso e una residenza con Henry Gruyarert promossa da Camera – Torino. Ha esposto in mostre personali e collettive e i suoi scatti sono stati pubblicati su varie testate tra cui Der spiegel, Corriere della Sera, Courrier International, National geographic, Il post e Vanity fair.
Antonia Marmo (Polla, Salerno, 1970) si laurea in Architettura a Roma dove vive e lavora occupandosi di comunicazione. Come fotografa free-lance utilizza diverse piattaforme social su cui condivide il suo personale sguardo su Roma e le altre città che visita mescolando immagini e brevi commenti testuali.
Laura Fogazza (Palermo 1963) laureata in Lingue e Letterature straniere si occupa di fotografia spaziando dal paesaggio urbano, all’incontro con “l’altro”, reportage, performances musicali e teatrali dedicandosi spesso a documentare viaggi e vari aspetti delle città in cui si muove.
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Last modified: 4 Luglio 2017