Expo 2015 chiude i battenti. Di quali allestimenti e messaggi ci ricorderemo?
Ammettiamolo, è stato un successo! Ma – ticket a parte – pagato a caro prezzo dai visitatori. A spanne: 20 milioni di persone x 5 ore di coda media pro capite = 100 milioni di ore sperperate nell’attesa di entrare nei padiglioni (taluni inarrivabili; per il Giappone, talvolta si faceva prima a prendere l’aereo e recarsi a Tokyo). Tranne Cina e Kazakhstan (e grazie al media pass!), in 4 giornate ho visitato tutti i padiglioni, cluster inclusi.
Tralasciando per un attimo l’annosa questione sul post, chiediamoci che cosa resterà di quest’Expo nei ricordi dei visitatori. La domanda non è peregrina in quanto tira in ballo questioni prettamente progettuali come il rapporto tra contenitore, contenuti e allestimenti.
Gran parte delle nazioni ha impostato il concept sugli show (videoproiezioni & simili) in black box ricavate dentro i padiglioni, con conseguente accesso contingentato. Di qui il collasso. Meglio l’organizzazione di un racconto attraverso un percorso, più o meno libero ma direzionato (Francia, Gran Bretagna, Iran, Brasile, Slovenia, Belgio, Irlanda, Spagna, Austria per citarne alcuni). Quanto ai contenuti di video e installazioni, erano quasi tutti dimenticabili (con qualche eccezione per Giappone e Corea) e, quindi, intercambiabili («Ma quello là, l’ho visto in Thailandia o in Uruguay?»), tra enfasi retoriche da un lato e spot di promozione turistica dall’altro. Se ciò è forse inevitabile per i cosiddetti «Paesi in via di sviluppo» – la cui presenza spesso si materializzava in un bazar, e in Vietnam ti avrebbero venduto pure la madre -, sorprende scoprire nel 2015 ansie didascaliche da informazione e legittimazione. Ma non lo sanno, i commissari dei padiglioni, che il visitatore «distrutto e distratto» dell’Expo legge, se va bene, un pannello di non più di 10 righe a caratteri cubitali? Non lo sanno che c’è il web per attingere informazioni e youtube per vedere ogni angolo e ogni fantasia o perversione più reconditi del pianeta? E, se proprio show dev’essere, che almeno sia live: come in Germania («Be(e) active»), dove il pubblico è coinvolto, da un paio di cantastorie-giullari, nella colonna sonora del viaggio sul territorio tedesco restituito dagli occhi delle api; ma non come in Giappone, dove anche il ragionier Fantozzi avrebbe definito «Il ristorante del futuro» una boiata pazzesca.
Perché, dopo una sfinente giornata, quello che forse resterà vivido nella memoria – e che dev’essere materia di progetto – è un vissuto esperienziale, immersivo. Ecco perché nessuno scorderà di aver calcato la rete del padiglione brasiliano: efficace metafora della solidarietà e vittima del suo stesso successo, in quanto tutti avremmo voluto continuare a baloccarci lì sopra. O ci si ricorderà che nel padiglione elvetico erano finite l’acqua e le mele secche a rondelle. O, ancora, che dagli olandesi la coda non c’era perché non c’era manco il padiglione. In tal senso a loro la palma. Hanno – giustamente, ironicamente e opportunisticamente per il loro portafoglio – trasformato Expo in una festa di strada, con cibo e divertimenti (musica e attrazioni, con tanto di mini ruota panoramica e labirinto degli specchi). Tuttavia, in un «chiosco», pure spiegavano – meglio e con molta meno retorica di altri – che cosa stanno facendo per «nutrire il pianeta» . Chi ha saputo «scovare» il lotto olandese – il più «urbano» di tutti – potrà dire: io c’ero! Tutto il resto è noia.
Leggi anche:
Internazionale, urbana, iperrealista, rassicurante: questa è l’Expo di Milano
(di Carlo Olmo)
Expo 2015: il grande salto del Brasile (di Caterina Pagliara e Federica Patti)
Andando per padiglioni, lungo il Decumano (di Alessandro Colombo)
Expo 2015: il meglio e il peggio (di Michele Roda)
Il caravanserraglio? (di Carlo Olmo)
About Author
Tag
allestimenti , expo 2015
Last modified: 17 Novembre 2015