Berlino. Che la riapertura del più controverso degli spazi museali berlinesi, dopo tre anni di lavori progettati da Kühn-Malvezzi, studio vincitore del concorso nel 2004, fosse tanto attesa, non deve stupire: il Kunstgewerbemuseum, Museo delle arti decorative, terminato nel 1985 su disegno dell’architetto tedesco Rolf Gutbrod – definito dalla critica ora la leggenda architettonica berlinese più grossolana e brutale, ora un esercizio di orrore brutalista con le fattezze di un bunker – lo fa però in maniera tutt’altro che eclatante, deludendo le aspettative di un’intera generazione di accaniti detrattori. Alcuni episodi che ne hanno segnato la storia sono già entrati nel mito, come quello secondo cui il presidente della Fondazione Prussiana BBCC e la direttrice del museo stesso si sarebbero scusati, nella conferenza stampa d’inaugurazione datata 1987 (a ben 20 anni dall’affidamento d’incarico del progetto a Gutbrod!), per la sua bruttezza e alcuni palesi errori architettonici presenti.
Ecco svelato il perché della spasmodica attenzione riservatagli oggi dai media nazionali, messa subito a tacere, e brillantemente, da un progetto molto sobrio ovvero dalle linee guida incentrate sulla pura razionalità di un intervento di conservazione, rispettoso di uno scomodo preesistente, dal suo primo istante di gestazione costretto all’ingiusto ruolo di mero specchio ideale per il vicino complesso di Hans Scharoun, e giudicato perciò in vita indegno di una posizione così centrale in quella che è l’area urbana più ricca di storia recente nella città che più di tutte in Europa ha vissuto i drammi del Secolo breve.
Consapevole di questa complessità, volendo con essa interagire senza subirla, al team italo-tedesco Kühn-Malvezzi si deve un’opera (costata 4,5 milioni) che dialoga, senza mai distaccarsene, sia con la storia umana e degli eventi che ne hanno fatto da contraltare secolarizzato, sia col contesto costruito circostante (così complesso per la presenza ravvicinata degli edifici della Philharmonie, della Neue Nationalgalerie di Mies e dell’isolata St. Matthäus-Kirche che sulle sue vetrate si riflette), ricco anche di vuoti ora irrisolti, come la spianata che lo separa dalla Potsdamerstrasse, ora di fantastici scorci nella natura dell’immenso Tiergarten, infine con la vetrina della sperimentazione architettonica più sfrenata nella vicina Potsdamer Platz.
La storia degli ultimi 100 anni passa di qua. Rispetto a tale luogo denso di memoria, in piena Guerra fredda, nel 1967 Gutbrod fu chiamato a confrontarsi ricevendo l’incarico di progettare un’ala del Complesso museale per l’arte europea, l’attuale Kulturforum. La salvaguardia e sottolineatura in chiave contemporanea delle sue discusse scelte sono diventate l’obiettivo centrale dell’intervento di Kühn-Malvezzi: Un progetto di riempimento che chiarisce quello originale. […] La luce, le prospettive, gli scorci: tutto è perfetto se visto in quest’ottica. Ne risulta uno spazio dal fascino finalmente disvelato, berlinese a tutti gli effetti, perché mai scontato, orgoglioso di diversità, altamente contaminato, che ospita 150 anni di storia della moda (oltre 130 costumi) e del design (oggetti e progetti con highlights dal Bauhaus fino a Sottsass e Starck), di vasi, mobili, vetri, porcellane, maioliche: per la prima volta nella sua storia anche Berlino può vantare un’esposizione stabile di questo tipo che dal lontano 1869 vagava, sfuggendo a guerre, bombardamenti e rivendicazioni di parte, da una parte all’altra della città dal Martin-Gropius-Bau allo Schloß Charlottenburg, passando per quelli degli Hohenzollern e Köpenick.
Un piacevole, multicolore tripudio di pezzi esposti, godibile in uno spazio articolato su 3.000 mq ricchi di scorci visivi e quinte sceniche e reso oggi più fruibile dagli accorgimenti plastici, coloristici e luminosi appena realizzati: cubi e rettangoli bianchi come spazi dentro spazi che accolgono come set televisivi le scene che vi si svolgono sotto i riflettori di un’illuminazione ora discreta e in dialogo con la tenue luce esterna, ora più imperiosa nella sottolineatura degli spazi comuni e di passaggio; promenade affiancate da vetrate che si riflettono a loro volta sugli originali pavimenti a specchio e accompagnano il percorso del visitatore nella galleria della moda; vistose, ma in qualche modo eleganti didascalie color rosso che emergono dalle nuove superfici candide. Ne risultano spazi ridotti rispetto al passato e decisamente poco mondani, a vantaggio però di un aggraziato insieme. Tutto serve a instaurare un nuovo, ridimensionato rapporto di forme, perché l’architettura non deve rivaleggiare con quanto è destinata a ospitare ma esserne la casa. L’onnipresente beton anni 60 rimane là dov’era ma viene come addolcito nella riproposizione di una bicromia bianco-rossa più marcata, e nei nuovi interni più prevaricante, rispetto a quella delle intonse facciate esterne grigio-rosso/opaco (cemento/laterizio): il visitatore che entra nel foyer non si perde più così nel gioco labirintico di piani, vani scale e pilastri ma è, al contrario, da subito informato sulle possibilità di movimento e sulla disposizione delle collezioni.
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