A volte mi chiedo se chi vive nelle società privilegiate e sviluppate del mondo non trovi più comodo continuare con le sue solite attività e ignorare quanto accade altrove.
La mia rivoluzione personale lho fatta allinizio del «Decennio delle Nazioni Unite per lo sradicamento della povertà» 1997-2007, quando sono andato a visitare i ghetti dei paesi meno sviluppati e mi sono ritrovato faccia a faccia con le disuguaglianze e le ingiustizie. Sono rimasto così impietrito che ho cominciato a cercare una strada diversa. Con lUnione internazionale degli architetti (Uia) abbiamo organizzato sei conferenze sulla povertà, due concorsi per architetti e studenti, una crociata sugli «Alloggi per i poveri», lezioni e articoli. Eppure non ho fatto il grande salto, lavorare nella realtà. Anche se alcune cose sono state realizzate e se gli appelli a un risveglio sono stati lanciati, questa lacuna continua ad assillarmi.
Nel 2007 lUia ha lanciato il triennale «Premio Vassilis Sgoutas», riservato agli architetti che contribuiscono a migliorare lhabitat e lambiente delle zone che si trovano al di sotto della soglia di povertà. Il prossimo congresso mondiale Uia, che si terrà nel 2014 a Durban, ospiterà la terza edizione del premio. Finora la risposta e la qualità dei progetti presentati sono state incoraggianti e hanno confermato uno degli obiettivi: «scovare» gli architetti che lavorano senza troppo clamore lontano dalle luci della ribalta. Ce ne sono tanti. Lanno scorso le proposte che ci sono pervenute riguardavano per lo più paesi come lAfrica, ma anche lAmerica Centrale e lAmerica Latina, lAsia e addirittura la Russia. Laspetto interessante è che gli autori dei progetti provenivano, in molti casi, dai paesi sviluppati, soprattutto europei. È un dato su cui lavorare, perché non ci sono ancora segnali sufficienti dagli architetti che vivono nei paesi in cui la povertà dilaga. Se non fossi sicuro che esistono sarebbe un problema gravissimo.
Ci tengo in particolar modo a ricordare il vincitore del 2008, laustraliano Paul Pholeros, e quelli dellanno scorso, litaliano Fabrizio Caròla e lo studio messicano Espacio Máximo Costo Mínimo. Pur non potendo in alcun modo affermare che questi architetti sono stati «scovati», meritavano senza dubbio una maggiore visibilità poiché il loro lavoro rappresenta molto di più di un singolo progetto. Lencomio con cui è stato premiato Caròla è eloquente: «per il suo costante impegno a migliorare le condizioni di vita in una serie di paesi dellAfrica attraverso luso di materiali da costruzione locali in una gamma di strutture che rispettano le culture del posto».
Gli architetti che lavorano nelle zone svantaggiate sono spesso definiti «architetti scalzi», espressione che per me racchiude lo sforzo collettivo di tutti i professionisti del settore che con pochi mezzi a disposizione, ma armati della vocazione a servire, stanno cambiando la concezione di rifugio e di spazio nelle zone più povere del mondo. Si potrebbe riassumere nella frase «con la gente, per la gente». Eppure non mi sento del tutto a mio agio con il fatto che questo «titolo» venga assunto o conferito anche ai non architetti, come nel caso del premio Aga Khan. Non tanto perché il loro lavoro non sia meritevole, quanto perché richiama indirettamente alla mente la mancanza dimpegno della stragrande maggioranza dei nostri colleghi. In un modo o nellaltro, tutti gli architetti sono potenzialmente scalzi, almeno per una parte delle loro attività.
Qual è dunque la via da seguire? Può essere solo quella di ampliare le fila di chi ha a cuore laltro lato della luna, di chi è pronto a guardarlo. Ogni azione impegnata conta. Ogni individuo e ogni organizzazione dediti allo scopo lasciano un segno.
Gli «architetti scalzi» vanno premiati






















