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Written by: Inchieste

Guardare è un rischio. Dunque è un’azione politica

Guardare, a Palermo, non è mai un comportamento neutro. Probabilmente non lo è mai in nessun luogo, ma a Palermo guardare può trasformarsi in un rischio nella misura in cui chi è guardato avverte lo sguardo come una provocazione, se non addirittura come una sfida. Per questo motivo guardare, continuare a guardare, dovrebbe essere non solo un impulso civile individuale ma anche un criterio al quale un’amministrazione dovrebbe rifarsi in una città che in tanti suoi fenomeni costruisce una socialità basata sul guardare senza prendere atto, senza che esista un collegamento logico, razionale e responsabile tra occhi e bocca. Un collegamento che riferisca ciò che si è guardato facendolo diventare testimonianza: materiale, problema, questione condivisibile.
Se a Palermo sguardo e discorso si connettessero intensamente, forse si riuscirebbe a minare nel profondo lo stato di acquiescenza apparentemente immodificabile in cui questa città è precipitata.

L’uomo col maglione viola:
Palermo Altrove
Di recente ho esplorato la città provando a sfuggire alle retoriche prevalenti attraverso cui si rappresenta a se stessa: quella dell’estasi vissuta davanti ai monumenti storici, nonché l’indignazione che si avverte davanti alla fatiscenza.
Il mio tentativo è stato quello di mettere in relazione dialettica il qui, fondato su queste due categorie retoriche, e l’altrove, inteso come qualcosa che non è ancora descrivibile perché fuori scena (verrebbe quasi da dire osceno). L’altrove è dunque qualcosa che non abbiamo ancora incontrato, qualcosa che devi andare a cercare e, se lo trovi, saper riconoscere.
Durante questa esplorazione ho avuto la sensazione che a Palermo, qualora si riesca a intercettare qualcosa di simile a un altrove, ci si confronti sempre con un qui esigente, egoista, qualcosa che ha una matrice talmente forte da assorbire al suo interno l’altrove che si pensava di aver rintracciato. Percorrendo zone della città molto diverse tra loro si ha la sensazione che l’altrove appaia per un istante, esista come barlume e poi scompaia assimilato dall’estetica e dalla retorica del qui.
Il mio desiderio è stato quello di rintracciare pezzi di città in cui potesse risaltare un pensiero progettuale nonché una particolare esperienza dell’abitare. L’impressione è che il pensiero progettuale, a Palermo, sia o un ricordo o un presentimento, mai qualcosa in atto.
All’Addaura, per esempio, c’è uno slargo con il capolinea di un autobus e una pensilina che rappresenta chiaramente il livello che può raggiungere l’abbandono, ciò che può accadere a uno spazio antropizzato quando l’antropizzazione viene meno. Questa pensilina è diventata la cornice teatrale di un immenso cespuglio che ha preso il sopravvento penetrando nel telaio della fermata. Si tratta di un luogo dove c’è stato un pensiero funzionale alla costruzione di un servizio minimo, un luogo che non è periferico ma, al contrario, nodale, considerato che durante l’estate passano da lì moltissimi palermitani. Eppure assuefazione e acquiescenza hanno permesso che quello spazio fosse silenziosamente abbandonato.
Dall’altra parte dell’Addaura ci sono venti metri quadri di terreno abbandonato intorno a un alberello dove da anni un uomo – di solito indossa un maglione viola – si prende cura di ciò che c’è. Ha costruito una rudimentale capanna per i gatti, ha disposto alcune fioriere altrettanto rudimentali e ha sistemato lì in mezzo una piccola sedia su cui – tanto in estate quanto in inverno – trascorre giornate intere, alzandosi a volte per spazzare la polvere. A Il Cairo avevo visto alcuni uomini che si cimentavano in un’analoga fatica di Sisifo spazzando la sabbia del deserto che si depositava lungo le strade. «Spazzare il deserto», mi era stato detto, è un’espressione che indica un’azione impossibile ma che, proprio nella sua clamorosa impossibilità, è comunque utile perché richiama a un elemento civile: agire e prendersi cura di qualcosa nonostante la consapevolezza che questo compito rimarrà sempre parziale e mancante.
Penso che lo spazio di cui l’uomo dell’Addaura si occupa sia significativo perché, impegnandosi nel prendersi cura di qualcosa, si configura nei termini di quello che viene chiamato bene comune. L’uomo dell’Addaura ha scelto un suo modo specifico (dal mio punto di vista virtuoso) di abitare. Spazzare il deserto è il suo modo di essere umano.

Il pensiero progettuale
A Palermo, dicevo, da un lato ci sono luoghi in cui il pensiero progettuale è un ricordo, luoghi cioè in cui si riconosce in filigrana l’esistenza di un pensiero che è stato nel tempo dimenticato; dall’altro ci sono luoghi in cui il pensiero progettuale è un presentimento, una tensione verso una possibilità. C’è qualcosa che viene annunciato, una specie di allusione, ma sembra trattarsi di un pensiero isolato e, soprattutto, disabitato.
La mia impressione è che a Palermo un po’ tutti abbiamo dimestichezza con luoghi segnati dallo svuotamento di pensiero progettuale; luoghi, quindi, deresponsabilizzati e deresponsabilizzanti. L’emblema degli spazi non pensati, o non più pensati, sta nella loro porosità. A Palermo sembra di poter andare dappertutto. Questo ha una ricaduta sul modo in cui le persone percepiscono se stesse nello spazio. In Lo stampo, T. E. Lawrence racconta il suo addestramento presso la Royal Air Force britannica. Al centro della narrazione ci sono il pudore ela spudoratezza: che cosa succede al sentimento della vergogna quando viene condotto ai limiti estremi. Vivendo in una struttura coatta come le camerate si genera presto una promiscuità che ha una motivazione ben precisa. Lawrence se ne rende conto nel momento in cui viene dato ordine di rimuovere le ultime paratie della camerata, quelle che permettevano di schermare le latrine. Alla domanda sul senso di questa crudeltà, un ufficiale risponde che se una persona può sopportare l’umiliazione determinata dall’essere visibili in circostanze limite, quella stessa persona sarà in grado di fare qualsiasi cosa. Dunque l’inverecondia, la distruzione di tutto ciò che è argine (e quindi la porosità cui mi riferivo prima), conduce a una disponibilità brutale nei confronti delle cose.
In quanto naturalmente spudorata, Palermo è una città in cui desta stupore percepire a volte frammenti di spazio timido, uno spazio che ha cioè un suo pudore, una capacità di rispetto di sé e di ciò che gli sta intorno.

Scimmiotta Milano e Barcellona:
esclusi o ospiti
Poco tempo fa, a Parigi, esattamente a La Villette, ho percorso una strada che fiancheggia un canale. Lungo la strada ci sono condomini degli anni ottanta che mi hanno ricordato quelli di Palermo costruiti negli stessi anni. Il canale era anche attraversato da alcuni ponti di ferro. Mi sono ritrovato a connettere tra loro queste forme e a pensare che chi cresce in una zona come quella, se da un lato ha a che fare con lo stesso spazio abitato da chi vive a Palermo, dall’altro, attraverso il montaggio di forme e materiali che provengono da tempi differenti (quei ponti risalgono grosso modo alla fine dell’Ottocento), si ritrova a fare un’esperienza del tempo complessa, proprio perché lo spazio di La Villette moltiplica e connette pensieri progettuali diversi tra loro. In altri termini sembra che in spazi come quello parigino il tempo trascorra in tutta la sua complessità.
Invece a Palermo, ma questo può essere un mio limite percettivo, è come se il tempo si fosse mineralizzato. Non succede nulla. Lo spazio si è immobilizzato. Quello che da tempo mi domando è perché non ci sia qualcosa che connetta Palermo a una dimensione almeno europea. Qualcosa che usi il tempo come un orologio per misurare il tempo. Lo spazio palermitano sembra cristallizzato, connesso solo a se stesso, dunque fondamentalmente autistico.
Negli anni successivi alle stragi del 1992, dopo un periodo che sembrava autenticamente fertile, è come se Palermo si fosse confrontata con una biforcazione culturale: da una parte  la possibilità di diventare una vera e propria città, un luogo articolato molteplice e connesso almeno all’Europa; dall’altra parte si prendeva la direzione del grande paese felicemente autoreferenziale. Quello che mi sembra è che ci si sia mossi collettivamente in questa seconda direzione. Non per colpa di qualcun altro, del solito carnefice esterno che ci costringe a quello che non vogliamo; semmai del tutto deliberatamente e con una percepibile soddisfazione. I codici culturali, dopo il 1992 apparentemente in evoluzione, sono nuovamente regrediti, la borghesia locale non ha scelto di svolgere una funzione di ariete e l’intero impianto della città si è arrestato tarandosi appunto su pratiche caratteristiche dei paesi delle province più isolate. Rischi e complessità si sono dileguati, Palermo si tiene ciò che ha, resta, fa manutenzione ordinaria di se stessa, è ciò che è. Chiunque viva a Palermo avendo vissuto per una parte della sua vita anche in altri luoghi, dunque chi è culturalmente anfibio, si ritrova a confrontarsi con un unico codice ristretto: si ritrova cioè a vivere da ospite in quella che in teoria dovrebbe essere la sua città. E intanto Palermo reagisce alla sua distanza dal resto d’Italia e d’Europa scimmiottando gli elementi di superficie, la corteccia delle esperienze altrui, soprattutto in relazione alla cultura del divertimento.
Prendo come esempio via Candelai, la via della cosiddetta «movida» palermitana. Percorrendola si ha la sensazione di muoversi attraverso la riproposizione semplificata di quello che si intende per divertimento contemporaneo. Il totem intorno al quale questo divertimento derivativo (e fra l’altro il modello di riferimento non è neppure un granché) è il mojito, una specie di elemento metonimico, la parte per il tutto, come se Palermo provasse ad apparentarsi con ciò che non è Palermo tramite l’attivazione di una figura retorica. Spostandosi alla Vucciria, in piazza Garraffello, altro spazio molto connotato del sabato sera palermitano, a colpire è il volume musicale compresso in quella piazza, una specie di monocultura che è la sintesi del rapporto della città con i suoi abitanti: o accetti quest’unico volume, questo suono che divora ogni cosa, oppure vai via (che può significare spostarsi fisicamente altrove o restare sentendosi però ospiti).
Quando osservo Palermo fare la scimmia di Milano o di Barcellona, da un lato sento tenerezza, dall’altro una profonda malinconia.

Bombardata come Mostar e Beirut
Guardando in successione le facciate dei palazzi di Mostar crivellate dai colpi di mortaio, le foto di Beirut scattate da Gabriele Basilico e poi lo spazio palermitano si riconosce una sorprendente analogia formale. In ognuno di questi casi lo spazio è in gran parte fatiscente. Tuttavia, mentre Mostar e Beirut hanno sperimentato una guerra in tempi recenti, Palermo è stata bombardata in un altro modo. Parecchie facciate dei palazzi di Palermo, soprattutto quelli costruiti durante gli anni Sessanta e Settanta, hanno oggi gli intonaci disgregati, il calcestruzzo che si sbriciola, i sottobalconi imbracati. Pezzi interi di città si rivelano per quello che sono sempre stati, come se un meccanismo a orologeria avesse fissato il momento in cui l’apparenza dell’intonaco intatto avrebbe lasciato il posto alla nuda, sbriciolata, realtà dei fatti: la distruzione era parte integrante della costruzione.
Se però Mostar e Beirut sono città assassinate, Palermo è invece una città suicida.

L’alibi delle radici
Una figura retorica identitaria, sicuramente trasversale ma molto presente nel racconto del Sud e dunque di Palermo, è quella delle radici. Da conoscere, riconoscere, riscoprire, rispettare. Le radici sono una causa, qualcosa che dovrebbe dare coerenza e senso a ciò che accade, un dispositivo che legittima i termini e le regole interne di un contesto sociale. Descritte in questo modo le radici sembrano più che altro la gabbia che giustifica tutto ciò che accade e tutto ciò che non accade. Presumere che il percorso di una comunità sia già contenuto in nuce nelle sue radici e quindi da esse determinato è come sostenere che il nostro Dna, indipendentemente da tutto quello che succede a un organismo, è già la spiegazione prima e ultima della nostra storia.
Palermo è una città che ha fatto del racconto delle radici ornamento e alibi. Il problema è che, parafrasando Benjamin, le radici non possono essere tanto l’origine quanto la meta. L’origine è una circostanza, da cui si parte e di cui si prende atto, ma se l’origine non contiene ciò di cui una comunità ha bisogno è necessario allontanarsi dalla propria origine, è necessario persino emendarsene così da cercare altrove quello che serve. È necessario, in sostanza, sradicarsi.
Se, per esempio, nella mia origine non c’è un pensiero di legalità, allora devo procurarmi un altro tipo di pensiero, senza la continua auto-giustificazione delle radici. Invece a Palermo si pretende che quello che non c’è mai stato non debba e non possa esserci.
Il mio desiderio è che Palermo si sradichi da se stessa, da ogni alibi, provando a correre il rischio di un altrove profondo e reale.

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Last modified: 9 Luglio 2015