Riscoprire che cinquantun anni dopo Marshall McLuhan ha ancora ragione lascia perplessi, forse interdetti. Eppure se unimpressione può riassumere il caravanserraglio dellultima, ma più corretto sarebbe dire delle ultime Biennali di Architettura, è che il medium rimane il messaggio. Andar a ricercare una differenza tra racconto e dispositivo, per recuperare la divisione della retorica classica, sarebbe non solo inutile, ma forse fuorviante. Quel che interessa a chi partecipa come a chi presenzia è lesserci, il condividere quel medium, sociale prima che culturale, che è ormai diventata la Biennale (non solo di Architettura). Il mondo dei racconti appartiene a unaltra generazione: quella, per quanto riguarda larchitettura, degli anni ottanta. Oggi, in parte nascondendosi dietro comodi paraventi (la complessità, la globalizzazione, il multiculturalismo), in parte per motivi organizzativi (lincredibile ritardo con cui si scelgono i curatori), anche solo lipotesi che esista la possibilità di una regia forte appare irrealistica e, soprattutto, mai ricercata.
Anche i temi (questanno «Common Ground») servono essenzialmente come vaghi contenitori, destinati a ospitare le espressioni più diverse; con una richiesta, non sempre perseguita dagli invitati, almeno di cercare una legacy tra dispositivo scenico e discorso, se non critico, almeno narrativo. Certo colpisce, anche in questa Biennale, il distacco tra il mondo figurativo che questo medium ci restituisce e i processi, oggi durissimi, che conosce la professione dellarchitetto, anche delle cosiddette archistar. Nessuno di questi processi, in primis la trasformazione del lavoro dellarchitetto in forme, sia pur diverse, di lavoro dipendente, traspare, come non traspaiono i processi di ristrutturazione, violenti e con conseguenze drammatiche sulloccupazione (dopo averne create di peggiori alle città e ai territori globalizzati e dopo aver cavalcato con grande leggiadria le diverse bolle immobiliari e oggi di viverne, con angoscia, le crisi). Tema che è certamente il «common ground» più condiviso oggi e tema sul quale anche la dimensione etica, fondamento di una qualsivoglia definizione di «common ground» della professione dellarchitetto, è seriamente chiamata in causa. E la coscienza non può certo essere salvata dalla litania green che pervade la Biennale, in grado dinsospettire persino il visitatore più ingenuo.
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