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Written by: Professione e Formazione

Quella dell’architetto è una “libertà condizionata”

Il ruolo assegnato, nella storia dell’architettura, alla distribuzione come momento del progetto inclusivo di ragioni funzionali e sociali, ha delineato un rapporto privilegiato tra spazio costruito e «vie sociale», fino alla modernità.
Oggi invece, sempre di più, lo spazio sembra definirsi lontano da queste ricerche, come pura conseguenza dell’involucro. Il dibattito avviato da questo Giornale nel numero 83 (aprile 2010) intende stimolare l’attenzione del contesto professionale, coinvolgendo affermati progettisti italiani su un tema fondativo del fare architettura. Dopo Baukuh, Iotti &Pavarani, Camillo Botticini, Carmen Andriani e Antonio Monestiroli, risponde alle nostre 4 domande Franco Purini.

1. Distribuzione, qualità dello spazio, tipologia: che cosa rappresentano per lei questi temi?
La domanda richiede una sintetica premessa. Molti architetti hanno oggi della tipologia un’idea errata e riduttiva. La considerano come un repertorio di nozioni strumentali, di regole distributive, di coordinamenti metrici, un repertorio conformistico e burocratico, buono soltanto per qualche esigenza classificatoria. Anche coloro i quali ritengono che esista la tipologia formale (si pensi al tema della chiesa a pianta centrale o a quello del museo, con la relazione genetica tra grande spazio e ambienti seriali) non colgono l’essenza e l’indubbia centralità di questo luogo conoscitivo e creativo dell’architettura, come lo definiva Giuseppe Samonà. Per me la tipologia è l’ambito del pensiero architettonico che sovrintende alle relazioni primarie, di natura gravitazionale, che legano le componenti di un edificio. Ho evitato di chiamare l’edificio organismo perché tale parola non possiede più una validità estesa. Queste componenti non sono altro che la proiezione architettonica delle varie forme di esistenza umana ospitate negli edifici. Interpretarle nelle loro varietà è esattamente il senso della tipologia. Che è ricerca del goethiano principio gerarchico che consente a un elemento-matrice di specificarsi in modi talmente complessi da rendersi irriconoscibile, oltre a essere la chiave logica per assimilare la lezione dei modelli. Lo spazio – uno spazio topologico – non è altro che l’esito del movimento coreografico che le masse tridimensionali fanno per consentire le relazioni umane per le quali l’edificio è costruito. C’è da aggiungere che il nucleo della tipologia, che ho cercato di chiarire in termini spero non troppo ermetici, non concerne mai la semplice utilitas, che in un edificio può cambiare anche più volte. Esso consiste piuttosto in una economia superiore, ovvero quella necessità che le parti di un edificio siano quelle e solo quelle, una necessità che coincide con la concinnitas albertiana.

2. Anche la modellazione 3D si sta rivelando un efficace strumento di controllo del progetto distributivo, al pari dei tradizionali studi basati su piante e sezioni?
Sono sempre più convinto che la modellazione 3D abbia poco a che fare con quell’ordinamento finalizzato dei materiali architettonici che l’ambito della tipologia polarizza nel modo cui accennavo prima. Materiali in senso gregottiano che s’inverano nella pianta, per me il luogo centrale dell’elaborazione progettuale. Indubbiamente il computer ha segnato una svolta radicale nel processo di elaborazione tecnica del progetto, ma solo per quanto riguarda la possibilità di disporre di blocchi conoscitivi formalizzati che si possono utilizzare in una maniera più semplice e diretta di quella di cui si poteva disporre prima che l’elettronica facesse il suo ingresso nell’architettura. Ritengo quindi che il digitale non sia in grado, di per sé, di agire sulle intenzioni che sono alla base di una scelta compositiva. In altre parole credo che il disegno automatico possa fornire all’immaginario architettonico una serie di elementi figurativi e un repertorio di riferimenti comparativi più ampio di quello tradizionale, ma che non abbia la possibilità d’incrementare le attitudini ideative dell’architetto, la sua capacità di stabilire connessioni inedite tra livelli diversi e distanti dell’architettura.

3. Quanto incide oggi la volontà della committenza, pubblica o privata, sulle scelte distributive, e quali sono i margini di libertà del progettista?
In Italia la committenza agisce oggi come agiva ieri, cioè in modo discontinuo e approssimativo. Dico in Italia perché in altri paesi (Olanda, Francia, Germania, Inghilterra, Svizzera, per restare in Europa) chi commissiona un’opera di architettura non si limita a indicare un programma – per inciso quasi sempre non generico come succede da noi ma attentamente specificato nelle sue parti -, aspettando poi il risultato del processo progettuale e costruttivo. In quelle fortunate nazioni il committente accompagna passo per passo la concezione dell’opera e la sua realizzazione, attivando con l’architetto una dialettica che spesso si estende, attraverso la partecipazione, ai futuri utenti dell’edificio. Per quanto riguarda la libertà del progettista va ricordato che quella dell’architetto è, per ovvi motivi, una libertà condizionata. L’architetto non è come il poeta, il pittore o lo scultore. Ha anche meno libertà di un regista cinematografico o teatrale. I problemi funzionali, i costi, le questioni tecniche, la manutenzione, le esigenze energetiche, la necessità di costruire un consenso motivato attorno all’intervento in corso, fanno sì che l’interpretazione soggettiva del tema debba per forza di cose iscriversi in un tessuto di scelte che trascendono questa stessa interpretazione riconducendola a parametri condivisi. C’è da aggiungere che maggiori sono i limiti con i quali l’architetto si misura, più possibilità egli ha di ottenere risultati significativi.

4. È possibile per il progettista stimolare vera innovazione distributiva e tipologica in un mercato residenziale omologante gestito da soggetti privati e rispetto a un’utenza che non ne fa esplicita richiesta?
Il fatto che l’architetto si debba confrontare con numerosi vincoli non esclude che egli debba e possa produrre un plusvalore innovativo nella sua ricerca. La dimensione residenziale è oggi in rapida evoluzione. Si potrebbe sintetizzare questa situazione constatando che, essendo scomparse ormai da qualche decennio le classi sociali storiche individuate dal marxismo, è nato un arcipelago di ceti metropolitani ridotti, frammentati e in competizione tra di loro (la moltitudine di cui hanno parlato Antonio Negri e Michael Hardt); ceti che possiedono stili di vita, costumi abitativi e orientamenti culturali diversi e spesso conflittuali. Nel frattempo la casa non è più un microuniverso sociale e produttivo, ma un luogo individuale e performativo, un terminale in grado di ricevere informazioni che esso rielabora e rinvia nel circuito della comunicazione. Per tutta una serie di motivi l’unità abitativa è oggi uno spazio eterotopico che richiede una grande capacità sperimentale per essere interpretato nelle sue risorse. Anche in assenza di una richiesta esplicita da parte dell’utente il ruolo dell’architetto, se inteso in tutta la sua ampiezza, impone di spostare sempre in avanti le complesse problematiche relative all’essenza dell’abitare, un’essenza che coloro che pensano e costruiscono architetture devono comprendere e soprattutto scoprire prima ancora che si manifestino nella città.

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Last modified: 13 Luglio 2015