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Alba CappellieriWritten by: Design

Dalla liquidità alla decrescita

MILANO. Che i sismografi dei nuovi linguaggi non siano i progettisti ma filosofi, antropologi, scienziati e letterati vari, che poco o nulla hanno a che fare con il mondo del progetto, è dato ormai notorio. Nell’Ottocento, ad esempio, artisti e pensatori, dallo scultore Horatio Greenough allo scrittore Henry David Thoreau, a filosofi e predicatori quali Ralph Waldo Emerson, William Ellery Channing o Horace Bushnell per citarne alcuni, ebbero negli Stati Uniti un’influenza determinante nella definizione della forma urbana e di invenzioni tipologiche fondamentali come il grattacielo. Che dire poi di correnti come il funzionalismo che, mutuato dagli studi settecenteschi del gesuita Carlo Lodoli, ha segnato il corso dell’intero Novecento, o del decostruttivismo, «saccheggiato» dagli scritti di Jacques Derrida e applicato con alterne fortune a edifici e oggetti al punto da costringere il filosofo francese a dedicarvi il saggio Adesso l’architettura?
Non sorprende, dunque, che la lectio di Serge Latouche alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano il 6 maggio fosse molto attesa da designer e architetti accorsi numerosi per ascoltare il profeta della decrescita, l’economista che, con straordinario tempismo, oppone alla liquidità della globalizzazione il ritorno a un localismo da cui è bandita qualsiasi forma di pubblicità e tecnologia, in una parola di progresso. Con le stesse slides, e finanche le stesse battute presentatea Bolzano, a Venezia e in altre tappe del suo tour (la stessa presentazione è anche in rete su YouTube), Latouche ha proposto il suo modello di sviluppo fondato sulle otto «R»: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Curiosamente però nell’abaco ne manca una a nostro avviso essenziale, quella di responsabilità, che dovrebbe rappresentare il cardine di qualsiasi teoria dello sviluppo, figuriamoci di quella della decrescita. Altrettanto trascurato è stato il contributo che il design e l’architettura potrebbero dare nel definire forme sostenibili di sviluppo, la decrescita, nella progettazione di prodotti, processi e servizi per la valorizzazione delle culture locali.
Recuperare l’artigianato artistico e le eccellenze territoriali locali, salvarne la memoria e valorizzarle nel progetto come nella produzione, si sono dimostrati, infatti, imperativi categorici in tempo di recessione. Il modello anglosassone di un’economia fondata sulla finanza e sui servizi si è rivelato definitivamente inadatto per un paese come l’Italia il cui vantaggio competitivo è principalmente basato sulla qualità manifatturiera. E non soltanto per beni accessibili o di largo consumo, ma soprattutto per la capacità di definire una nuova geografia del lusso, più orientata all’immaterialità della cultura che all’ostentazione materiale. Ben prima di Latouche, i Radical, e soprattutto Ugo La Pietra, avevano teorizzato una progettazione che partisse dalle risorse territoriali.
«Non esiste il made in Italy», sosteneva La Pietra, «ma piuttosto numerose specificità e identità locali che rappresentano un valore aggiunto del prodotto italiano, soprattutto ora che l’arte ha superato il concettuale ed è ritornata al fatto a mano. Analogamente il design, non avendo più grandi risorse, riscopre la cultura del fare, che non è legata alla serie, ai numeri, e allora ci si rifugia nell’oggetto d’eccezione e si riscoprono i territori dimenticati». Eccellenze manifatturiere, risorse locali, sostenibilità territoriale, sviluppo consapevole, in tono con la green economy anche il design si tinge di verde, come ha dimostrato l’ultimo Salone del Mobile. Dall’installazione in bambù di Mauricio Cardenas alla Statale alle ceramiche materiche di Michele de Lucchi in Triennale, dalle lampade di Marcus Arvonen per Ikea ai vasi di Paolo Ulian o le superfici di carta di Diego Grandi per Coincasa, tutto sembra confermare le riflessioni di Ugo La Pietra per un uso consapevole dei materiali e delle risorse, ma soprattutto si evidenzia la responsabilità etica del designer. Esemplare in tal senso la provocazione di Philippe Starck che, nel presentare la collezione di sedute in plastica «In/Out» per Driade ha affermato: «La stupidità del movimento ecologista è che le persone uccidono gli alberi per il legno. È ridicolo. La migliore strategia ecologista è fare prodotti di una qualità creativa molto alta, così puoi conservarle per tre generazioni. Preferisco fare una buonissima sedia nel miglior policarbonato che fare una merda in legno che sarà spazzatura l’anno successivo». Come dargli torto?

Autore

  • Alba Cappellieri

    Professore ordinario al Politecnico di Milano, dove dirige il corso di laurea in Design della moda. Dal 2014 è direttrice del Museo del Gioiello di Vicenza. Ha dedicato al design e alle sue intersezioni con la moda numerose mostre e libri, ha partecipato a convegni internazionali e vinto premi e riconoscimenti, ma considera il suo maggior successo avere incuriosito i suoi studenti a scoprire le storie meno note ed evidenti del design, stabilendo connessioni e convergenze senza mai fermarsi alle apparenze.

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Last modified: 18 Luglio 2015