Riceviamo e pubblichiamo un commento critico di Carlo Quintelli relativo alle vicende urbanistiche e giudiziarie milanesi degli ultimi mesi
Pur organico al contesto dell’inchiesta sull’urbanistica milanese, l’architetto Stefano Boeri non può essere il capro espiatorio del cosiddetto “rito ambrosiano” dal grattacielo facile a cui addebitare tutte le colpe. Servirebbe una disanima delle molteplici responsabilità attraverso le quali si è venuta a determinare una condizione di degrado della politica di trasformazione architettonica, non meno che sociale, della città, se ancora crediamo che serva regolarne forma e fisiologia nell’interesse collettivo.
Serve un’analisi che operi senza pregiudizio ideologico, comprenda le pulsioni vitalistiche spesso in chiave capitalistica che, per dirla con Georg Simmel, tendono a riaffiorare e a rompere lo status quo di un assetto culturale, quello della borghesia illuminata in combinata con l’operosità operaia del primato morale e produttivo della Milano di un tempo. Una rottura ineludibile, a volte utile alla trasformazione della città ma anche nefasta se lasciata correre senza remora alcuna.
Il primo posto in termini di responsabilità va dato alla politica, cioè a chi, occupandosi della città come fenomeno collettivo, finisce invece per privilegiare gli interessi di parte, oggi in particolare di quelli che portano risorse finanziarie da moltiplicare attraverso l’uso dello spazio urbano. La città non è più polis né civitas quando il garante politico non abita più nel palazzo, eludendo il compito: cos’altro è stata la “tentata” legge in stile autarchico “Salva Milano”? Parliamo di un politico che rinuncia inoltre alla prerogativa della visione poiché ha da tempo archiviato la cultura del bene comune, della città e della sua storia. Giova poi al degrado se è anche un poco ignorante, incline alla superficialità degli slogan massmediatici, attento al profilo modaiolo e di un’idea convenzionale dello sviluppo, ma soprattutto narcisisticamente desideroso di ottenere un facile consenso.
Un altro livello di responsabilità ricade sui farisei della burocrazia pubblica che operano, nella complessità del quadro legislativo-normativo, su processi di legittimazione farraginosi quanto suscettibili di interpretazioni forzate e declinabili grazie a giochi di ruolo, mancata trasparenza, sapienti tempistiche, separazione o avocazione procedurale. Quell’ambiente tecnico-amministrativo congeniale al politico amministratore di cui sopra, uso alle pressioni dirette e di tipo personale.
Non minor rilievo andrebbe dedicato agli operatori, investitori, immobiliaristi: i cosiddetti “sviluppatori“, con termine già di per sé distopico. Come ci insegna Vere Gordon Childe, già dalla rivoluzione urbana del V millennio la città cresce attirando e riproducendo ricchezza nella dialettica tra operatori economici e un’autorità pubblica chiamata a garantire l’interesse generale su quello particolare. Ora, pur senza troppa simpatia nei confronti dell’intrapresa immobiliare, bisogna riconoscere che in alcune situazioni ha dimostrato di far coincidere, o quasi, il proprio interesse a quello della città. E qui torniamo al tema della responsabilità di una borghesia che ha perso la propria funzione storica comprensiva di un portato etico per la città, quasi secondo una nuova forma di aristocrazia innanzitutto culturale oltre che di ruolo economico sociale. Oggi, nella compagine dei post e nuovi ricchi ruspanti o del circuito globale, oltre all’etica non si produce più alcuna estetica, salvo ormai rari casi, se non quella frutto di una presuntuosa ignoranza.
Penultimo, il ruolo dei professionisti, a partire dagli Ordini professionali, istituzioni ormai stanche e propense al conformismo. Aldilà di tutta la retorica etico-deontologica con tanto di corsi di aggiornamento, il povero architetto medio, che ancora non è caduto nell’intermediazione immobiliare o in altri mestieri di ripiego, deve pur sopravvivere tra i mille ostacoli di una committenza raramente all’altezza, di una burocrazia maniacale, di una politica politicante, di un settore edilizio mediamente arretrato e di altri fattori al contorno che non giustificano certe sue debolezze da complice più o meno consapevole di politiche sbagliate sino al fatto illecito, ma ce le fanno comprendere.
Ultima ma non ultima l’Università, ma quella che l’indimenticabile teorico di “L’Unità Architettura Urbanistica” Giuseppe Samonà in tempi di legittimazione della ricerca auspicava diventasse un centro studi sul territorio, non quella di molta “terza missione” che a volte è sin troppo di supporto più che di critica alle dinamiche della trasformazione urbana. Certo l’Università è molto cambiata, ripiegata sul modello aziendalistico, del marketing di se stessa, dinamicamente provinciale nel promuovere un internazionalismo a prescindere secondo le strategie di valorizzazione di un brand che poco o nulla ha a che fare con la struttura e i fenomeni urbani dentro i quali è calata, e ai quali fornisce ben poca risposta sia critica che progettuale privilegiando facili cliché. Tra tutti, quello più suadente e ascrivibile all’ambiguo totem della sostenibilità, all’urbanistica tattica, al narcisismo del design, a una dimensione ludica in grado di risolversi nell’evento estemporaneo, magari socialmente partecipato. In altre parole: un’Università che non disturba il teatro delle trasformazioni urbane, quelle vere.
Quindi, in conclusione, Stefano Boeri è totalmente privo di responsabilità a partire dal caso Milano? Difficile a dirsi, anche perché bisogna pur rilevare che ha fatto parte di quasi tutte le categorie succitate: il politico e amministratore, l’organizzatore culturale, il facilitatore immobiliare, il professionista sia urbanista che architetto ma soprattutto teorico e professore. Aperto ai referenti politici di destra come di sinistra, attivo al G8 berlusconiano della Maddalena come nei contesti a committenza socialista (sui generis) di Tirana, o recentemente di Roma (notoriamente priva di studi urbani qualificati…).
In quasi tutte le occasioni sfodera la sua retorica socio-ambientale condita da rendering accattivanti tarati sul medesimo grado di aspettativa da lui creata. Il quadro etico idilliaco, venato di lirismo, spesso si coniuga a operazioni robuste di sano ed esplicito sviluppo edilizio. L’ipocrisia che fa leva sull’intento green caratterizza il suo principale successo commerciale, quel Bosco Verticale messo a nudo da innumerevoli e motivate critiche che non gli hanno certo impedito di essere assunto a simbolo di una città presuntivamente avanzata (per ricchi) e di un esotismo estetico totalmente estraneo al carattere di Milano. Un fenomeno mediatico simulacrale certo non nuovo e che Jean Baudrillard già a inizio anni ‘80 metteva in evidenza. E sin qui emergerebbe tuttavia il pensiero di arrivare al patteggiamento se non alla prescrizione (eticamente parlando).
Non appare invece emendabile la responsabilità di Stefano Boeri quando esercita il suo portato educativo, a maggior ragione nella veste di docente universitario anche se la sua cattedra preferita risiede nei mass media. D’altra parte, l’obiettivo primo è sviluppare il consenso, e che altro?
Immagine di copertina: quartiere CityLife, Milano
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lettere al Giornale , Milano , stefano boeri , urbanistica
Last modified: 21 Agosto 2025