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L’archiviaggio. L’eccezione diventa regola tra le strade di Skopje

L’archiviaggio. L’eccezione diventa regola tra le strade di Skopje
Frammentazione, gentrification, spontaneismo. La capitale della Macedonia è città in continua trasformazione, anche con dinamiche dal basso che modificano senza sosta il paesaggio urbano

 

SKOPJE (Macedonia). Passeggiare per la capitale macedone significa confrontarsi con una città dalle molteplici identità. Alcuni tratti, in particolare, colpiscono l’osservatore attento: la presenza pervasiva del verde urbano, non solo nei grandi parchi dei quartieri di mass housing, ma anche nei piccoli interstizi quotidiani, alberature stradali, giardini privati, aiuole residuali; la netta discontinuità del tessuto urbano, che muta radicalmente da un quartiere all’altro, componendo una città di paesaggi giustapposti, frammentati, talvolta inconciliabili tra loro per logiche insediative e storie di pianificazione; e la continua, inquieta riscrittura della città stessa, in cui le norme che la regolano appaiono più come strumenti di rincorsa che dispositivi ordinatori. Skopje, in sostanza, non smette di reinventare la propria immagine.

 

Minime alterazioni spontanee

Tra le molte trame che definiscono il suo paesaggio urbano, spiccano i quartieri di mass housing realizzati tra gli anni Cinquanta e Sessanta – alcuni prima del terremoto del 1963, altri immediatamente dopo. Edifici modernisti, sobri, in linea: massimo quattro piani, due appartamenti per piano serviti da una scala centrale, doppi affacci e immersi in un ampio sistema di verde pubblico. Quartieri come Karpoš, Prolet, Mičurin, Avtokomanda – solo per citarne alcuni – ne costituiscono esempi emblematici, disseminati lungo diverse direttrici di espansione della città, a testimonianza di un’idea di modernità diffusa e policentrica.

Con la dissoluzione della Jugoslavia e l’avvento dell’economia di mercato, a partire dagli anni Novanta questi blocchi iniziano a mutare. La proprietà privata, divenuta improvvisamente accessibile e politicamente legittimata, trasforma l’alloggio in bene rifugio. In un contesto normativo in transizione, segnato da incertezze e vuoti istituzionali, proliferano le prime trasformazioni minime: chiusure di balconi, piccoli ampliamenti, minime superfetazioni tollerate dalle istituzioni impiegate a fronteggiare questioni di ordine superiore. È un’alterazione del tessuto che muove dal basso, da chi si sente finalmente legittimato ad appropriarsi dello spazio vissuto e ad alterarlo secondo i suoi desideri. Tali interventi, inizialmente marginali, vengono presto intercettati e accolti con favore da nuovi attori emergenti – investitori, developer, costruttori – che colgono nelle ambiguità normative un terreno fertile per operazioni più ambiziose. Le ambiguità insite nel quadro regolativo locale non solo non ostacolano l’azione, ma aprono spazi di manovra: zone grigie in cui l’urbano si ridefinisce attraverso adattamenti incrementali e strategie di massimizzazione volumetrica. 

La forma architettonica si deforma: tetti piani sostituiti da coperture a mansarda per aggirare i limiti di altezza (si noti che la normativa macedone misura l’altezza massima ammissibile al livello della linea di gronda), nuovi pilastri e stanze aggettanti, nuove grandi volumetrie addossate lungo tutta la facciata, interi livelli sovrapposti. In molti casi, edifici originariamente modesti raddoppiano in altezza e più che raddoppiano in capacità volumetrica, generando nuove densità di costruito nei quartieri residenziali. Questa dinamica si nutre di un equilibrio instabile ma persistente tra norma e trasgressione, tra regolazione pubblica e iniziativa individuale. Sebbene non si possa parlare propriamente di co-produzione pubblico-privata, è evidente come l’aspetto attuale di molti quartieri derivi da un’interazione, per quanto asimmetrica, tra istanze bottom-up e risposte istituzionali. Il risultato è un tessuto residenziale profondamente trasformato: gli edifici originari, ingabbiati da strutture parassitarie, perdono la propria scala e il rapporto con lo spazio aperto che li circondava. La densificazione erode il suolo pubblico, ispessisce le maniche edilizie fino a profondità inabitabili, genera problemi di ventilazione, luminosità, accessibilità. Cambia la qualità dell’abitare, ma anche quella del paesaggio urbano.

E tuttavia, a oltre 30 anni dall’inizio di queste trasformazioni, il fenomeno – sebbene meno frequente – non è affatto esaurito. Nonostante il miglioramento delle condizioni economiche e istituzionali, si continua ad assistere alla comparsa di nuove impalcature, nuovi involucri, nuove costruzioni intorno a strutture esistenti. È ancora possibile incontrare, oggi, un cantiere che mentre avvolge una nuova ossatura edilizia al costruito, sul balcone originario, una donna stende il bucato. L’eccezione è diventata regola; l’emergenza, consuetudine.

Frammentazione pianificata

L’altra faccia della medaglia della città di Skopje – oltre ai complessi residenziali – è rappresentata dallo spazio circostante: le aree residuali, spesso prive di una funzione definita, che influenzano profondamente la forma e la vivibilità delle città. Quando questi spazi vengono trascurati o considerati semplici vuoti da riempire, il risultato è lo sviluppo di aree urbane frammentate e disconnesse. Questi luoghi spesso mancano di coesione estetica e funzionale; tuttavia, tale tipologia di spazi aperti dovrebbe essere concepita non come elementi isolati, ma come una rete integrata di luoghi di diversa tipologia, fungendo da veri e propri hub per attività multifunzionali.

In particolare, nel contesto specifico di riferimento, i molteplici eventi storici – ne citiamo alcuni come il terremoto del 1963 e la conseguente ricostruzione della città sotto le indicazioni di Kenzo Tange, l’indipendenza dalla Jugoslavia nel 1991 e il controverso progetto di Skopje 2014 – hanno modellato e frammentato lo spazio pubblico, determinando così uno status di transizione permanente. Lo si identifica attraverso una serie di cambiamenti rapidi e spesso incompleti, contrapposti a sistemi di pianificazione lenti e ad una mancanza di una chiara strategia; causando un effetto spaziale, non indifferente: un tessuto urbano ricolmo di frammenti isolati che funzionano più come isole autonome che come parti integrate di un sistema coeso.

Questo ha avuto un impatto diretto sulla qualità dello spazio pubblico, dove gli interessi privati hanno preso il sopravvento. Questo scenario speculativo produce una proliferazione di elementi urbani come piazze e cortili che, pur essendo formalmente accessibili, spesso non vengono percepiti o utilizzati come spazi pubblici. Si assiste così a un’inadeguatezza funzionale che svuota di significato queste aree, trasformandole in semplici negativi del costruito. Tale processo compromette l’accesso, la qualità e la funzione sociale di questi spazi, con ripercussioni negative sulla coesione sociale e sulla qualità della vita urbana complessiva.

Questo processo di erosione dello spazio pubblico trova una delle sue espressioni più evidenti nei grandi interventi di trasformazione urbana promossi negli ultimi anni, in cui strategie di rigenerazione formale si intrecciano con logiche speculative. Tra questi, il Grand Skopje Project si configura come un esempio emblematico capace di riassumere tensioni, contraddizioni e criticità che caratterizzano la riscrittura contemporanea dello spazio urbano. Si tratta della riqualificazione dell’ex parcheggio dell’Holiday Inn, iniziata nel 2012 con un piano urbanistico dettagliato che ha suscitato notevoli polemiche. Il progetto prevede la costruzione di tre strutture principali: due torri residenziali da 20 e 22 piani e un edificio commerciale da 11 piani, che ospiteranno circa 400 appartamenti e accoglieranno 1.200 nuovi residenti. Sebbene siano previsti circa 6.000 metri quadrati di verde, inclusi giardini sul tetto, e servizi come parcheggi sotterranei e strade pedonali, le critiche pubbliche sono state forti. La violazione della proprietà e degli spazi pubblici porta alla loro distruzione e riduzione, minacciando aree storicamente definite come spazi pubblici, come strade, piazze e rive dei fiumi, contribuendo all’enfatizzazione di una vera e propria città di cemento.

 

Transizione senza fine

Concludendo la passeggiata per Skopje, la città dalle molteplici identità rivela il suo tratto distintivo nella transizione permanente. Non è solo la storia a definirla, bensì un processo continuo di riscrittura, influenzato da forze diverse. L’identità modernista, che si esprimeva nei grandi quartieri residenziali, ha ceduto il passo a un paesaggio urbano frammentato, dove la gentrificazione e le trasformazioni progressive hanno eroso il rapporto tra il costruito e lo spazio aperto. Ne è risultato un tessuto urbano che è un mosaico di stratificazioni, dove la logica insediativa e la storia della pianificazione si incontrano e si scontrano, dando vita a un ambiente in continua e imprevedibile evoluzione.

Skopje, quindi, non è un’entità statica, definita solo dagli eventi cardine di maggior risonanza come il terremoto del 1963 o il progetto Skopje 2014. Questi sono piuttosto catalizzatori o manifestazioni di una più ampia dinamica di rincorsa e adattamento che caratterizza la città. La coesistenza di verde pervasivo, la discontinuità del tessuto urbano e l’incessante sovrapposizione di trasformazioni rendono Skopje un laboratorio vivente. Qui l’emergenza è diventata consuetudine e l’eccezione la regola, rivelando come le logiche urbane siano il frutto di un equilibrio instabile tra iniziativa privata e, a volte, l’assenza di una chiara direzione normativa. La città, come detto in apertura, non smette di reinventare la propria immagine futura, proiettandosi in una transizione che sembra non avere fine.

Immagine di copertina: Skopje dall’alto (@Bojan Joveski via Unsplash)

 

Le riflessioni proposte scaturiscono dal progetto SEE:4C (South Eastern Europe: 4 Cities): una ricerca interuniversitaria finanziata nell’ambito del bando PNRR TNE (Trans National Education) che vede la collaborazione tra il Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino, la Facoltà di Architettura dell’Università Belgrado, l’Università del Montenegro, l’Università Ss. Cyryl and Methodius di Skopje e il Politecnico di Tirana.

Autori

  • Irene Carrozzo

    Irene Carrozzo è un’architetta e dottoranda nel programma Architettura. Storia e Progetto presso il Politecnico di Torino, dove si è formata e ha conseguito la laurea magistrale con una tesi sviluppata in collaborazione con l'Universidad de Monterrey, dedicata allo studio della vivienda, la casa tradizionale messicana, e ai suoi possibili sviluppi. Dopo la laurea, ha collaborato alla redazione del Climate City Contract per la città di Torino. Attualmente, il suo progetto di ricerca si concentra sull'analisi degli spazi pubblici in relazione alla transizione ecologica, con un focus particolare sui casi di Torino e Parigi, indagando come le normative urbane orientate alla sostenibilità ambientale possano essere formulate tenendo conto del loro impatto sulle disuguaglianze all'interno dello spazio urbano.

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  • Lorenzo Murru

    Curioso per natura e architetto per caso. Formatosi tra il Politecnico di Torino, l'Università di Tokyo e la Columbia University di New York ha indagato il fenomeno del micro-housing nelle grandi aree urbane e ha preso parte, come membro di FULL - The Future Urban Legacy Lab, a ricerche sul potenziale inespresso dell’edilizia scolastica italiana. Ha lavorato con vari studi professionali e partecipato a molteplici concorsi internazionali di progettazione. Attualmente è dottorando in Architettura. Storia e Progetto al Politecnico di Torino. La sua ricerca è incentrata sulle pratiche ordinarie di iniziativa individuale alla base delle trasformazioni urbane nelle città post-socialiste e sulla complessa interazione tra iniziativa individuale e trasformazione urbana istituzionale. La ricerca fa parte del progetto SEE:4C - di cui è membro attivo - del Politecnico di Torino. Nel tempo libero è fotografo, nuotatore, e montatore seriale di Lego.

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Last modified: 30 Luglio 2025