Due pubblicazioni recenti, dedicate al welfare e alla figura di Kay Fisker, offrono punti di vista sull’architettura nel nord Europa
Due libri recenti (e molto attesi), pur occupandosi di temporalità differenti, affrontano due facce della stessa medaglia: da un lato le premesse che hanno reso la disciplina architettonica strumento per organizzare e dare forma nel secondo dopoguerra a quello stato sociale scandinavo dal forte carattere collettivo; dall’altro, quali siano oggi le responsabilità, gli effetti e i lasciti di tale rapporto sapendo che lo stato sociale si è ancorato (e arenato) dai primi anni novanta in un neoliberismo sempre più sfrenato.
Il grande assente – per esplicita scelta dei curatori – è proprio l’architettura dello stato sociale, anche se la problematizzazione del mito ne offre il punto di partenza. Sebbene con un forte focus locale, entrambi i libri hanno una vocazione internazionale, con testi in inglese e pubblicati da case editrici svizzere.
Chi costruisce il welfare? Voci, assenze e prospettive nell’architettura scandinava
Un libro curato a sei mani da tre voci autorevoli dell’accademia svedese, danese e norvegese, Architecture and Welfare – Scandinavian Perspectives (di Thordis Arrhenius, Ellen Braae, Guttorm Ruud, Birkhäuser, 2025, 392 pagine, 62€ / open access) è un’operazione corale di ricerca accademica. Per comprenderne la genesi bisogna innanzitutto partire dal colophon e dalla lunga lista di finanziatori che hanno supportato la rete tra studiosi e università di base nei paesi Nordici sul tema dell’architettura dello stato sociale scandinavo (2013-2025).
Rete dalla quale, non solo sono stati attivati sette progetti finanziati da rispettivi fondi nazionali e attivati dai singoli centri di ricerca ma che in poco più di dieci anni ha visto la pubblicazione di sette libri, otto incluso questo.
A conclusione di questo percorso, e forse a rivendicare un’autorialità intellettuale e territoriale su scala internazionale del tema, la pubblicazione è affidata a una casa editrice svizzera, seppure anticipando sin dal titolo la prospettiva volutamente dominante: quella scandinava. Posizionale che ne è croce e delizia, come appare evidente confrontando da un lato le ambizioni dall’altra le conclusioni effettive.
Offre storiografie alternative alla narrativa classica, che ha visto nel 1945-75 l’età dell’oro per l’architettura scandinava, e quindi propone una interpretazione su come mai il lascito politico e spaziale di tale mitizzazione venga oggi messo in discussione e non goda più del consenso pubblico e professionale, venendo spesso associato a forme di alienazione, esclusione e isolamento.
Il volume raggiunge tale scopo ambizioso invitando sedici contributi incentrati su altrettanti casi studio e divisi in quattro macro-gruppi: forma e materia; reti e attori; discorsi e critiche; riconcettualizzazioni e nuove formazioni. In tali contributi gli autori mirano a sollevare domande, sfidare le teorie dominanti e ispirare ulteriori ricerche contribuendo non solo alla ricerca accademica ma anche alla pratica architettonica e di pianificazione contemporanea e futura. Per fare ciò presentano molteplici interpretazioni, evocando una pluralità spaziale, geografica, sociale e temporale che permette una comprensione più ricca della Scandinavia odierna e della sua architettura. Tali macro-gruppi sono intervallati da tre contributi visivi che accompagnano verso la conclusione.
Altrettanto vero è che la conclusione dialogica fatica a ottemperare al compito, sicuramente non facile, che le era stato assegnato: tirare le fila, non solo del libro, ma anche della situazione professionale attuale e futura. Ardua impresa che evidenzia ed amplifica tre debolezze: innanzitutto il concetto di eccezionalità scandinava come super-imposizione esterna dove l’architettura scandinava a vocazione collettiva è mitizzata al punto da diventare dagli anni ottanta merce d’esportazione.
La seconda debolezza riguarda prevalentemente quelle “reti e attori” del secondo macro-gruppo: un’occasione persa per allargare lo sguardo oltre ai confini disciplinari dove l’architetto singolo o in gruppo – spesso di genere maschile – è deus ex machina. Si lascia la lettura chiedendosi dove siano i finanziatori, i costruttori, gli impiegati pubblici, i lavoratori dei cantieri e tutte le altre professionalità senza cui difficilmente l’architettura sarebbe mai stata costruita.
La terza debolezza riguarda proprio il focus stretto posto dal titolo sul campo di azione che finisce per scartarne ogni intersezione con campi altrettanto rilevanti per il mondo scandinavo come “architettura e lavoro” o “architettura e studi della produzione” o “storia delle pratiche architettoniche”. Campi che nel tentativo di consolidare internazionalmente un’operazione accademica valida e corale sono stati tralasciati, finendo per omettere che per quanto variegata la prospettiva offerta rimane nicchia e privilegio di quella posizionale occidentale e nordamericana che con fatica molti studiosi stanno smantellando anche in Scandinavia.
Architettura come strumento collettivo: la lezione (ancora attuale) di Fisker
Il secondo volume, Kay Fisker: Copenhagen Housing Types (1936). Row-house Types (1941) (di Luca Ortelli, Chiara Monterumisi, EPFL Press, 2025, 216 pagine, 35 €), offre per la prima volta la traduzione annotata in inglese di due volumi tipologici che Kay Fisker ha coordinato nella propria cattedra Bolig Klasse all’Accademia Reale di Copenhagen. Le traduzioni offrono un facsimile delle dimensioni e del layout delle pagine originali dei due testi, rendendo giustizia alla loro natura complementare.
I contributi introduttivi dei curatori contestualizzano l’opera di Fisker come architetto, docente e teorico, mostrando un’attenta e dettagliata – a volte fin troppo – conoscenza non solo dell’architettura disegnata e costruita dall’architetto danese, ma anche di tutto quel processo di scambio intellettuale locale e transnazionale che Fisker intercorse con i suoi colleghi e che spiega la presenza di casi studio esteri nei volumi tradotti.
Tra i molteplici aspetti trattati vale la pena menzionarne due: da un lato, come il libro si inserisca in un percorso di riscoperta di una figura pivotale dell’architettura danese da parte di professionisti, docenti e ricercatori internazionali. Dall’altro, come quella vocazione collettiva dell’architettura dello stato sociale viene declinata alla maniera di Fisker, con poche e concise parole e un apparato analitico e tipologico invidiabile ancor più perché prodotto di un mondo totalmente analogico.
I due testi (a loro modo manuali, che includono disegni, diagrammi, schede e strumenti di misura e calcolo capaci di affrontare quanto di più collettivo esiste nella tradizione danese ovvero l’abitare) offrono un affresco sfaccettato elaborato da studenti sotto la guida attenta di Fisker. Studenti, i cui nomi sono riportati direttamente in copertina, a prova dell’alta considerazione per la collettività in ogni ambito, cosa ancora impensabile in alcune realtà universitarie odierne. Collettività di cui Fisker è stato sicuramente precursore e maestro, nel senso più letterale del termine, avendo insegnato in varie posizioni all’Accademia per quarant’anni.
L’apparato iconografico diventa un mezzo di comunicazione che parla un linguaggio chiaro e distinto, comprensibile da tutti coloro che lo maneggiano, e non vezzo grafico espressione di un talento individuale. Ciò che rende questi testi così speciali non è solo il numero di casi descritti, ma il metodo educativo sistematico di cui (finalmente) possiamo godere grazie alla traduzione inglese.
Lezioni per lo stato sociale, di oggi e di domani
I due libri sono a loro volta complementari. Mentre il primo mostra i dubbi e gli interrogativi per un’architettura scandinava chiamata a ripensare la collettività perduta in uno stato neoliberale basato sull’iniziativa privata, il secondo dà spessore proprio alla collettività, posizionando nel dibattito internazionale sia le iniziative di pianificazione danesi a trazione pubblica tra le due guerre (prima quindi della sopra citata età d’oro) sia quel metodo educativo rigoroso ancorato al disegno come strumento di misura dell’abitare.
Che andrebbe testato ancora oggi per imparare a costruire il futuro dell’architettura dello stato sociale.
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architettura e welfare , kay fisker , libri , Scandinava , stato sociale
Last modified: 14 Maggio 2025