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Andrea LonghiWritten by: Patrimonio

Case, cose, chiese: carismi universali e microstorie di riuso

Case, cose, chiese: carismi universali e microstorie di riuso
Una pubblicazione affronta il tema attualissimo dei patrimoni delle comunità di vita consacrata, alla prova della secolarizzazione

 

ilgiornaledellarchitettura.com è stato media partner del convegno internazionale organizzato dalla Santa Sede sui Patrimoni culturali delle comunità di vita consacrata. Di quell’evento sono ora disponibili gli atti: Carisma e Creatività, a cura di Luigi Bartolomei e Fabrizio Capanni, Artemide Editore, 2025, 368 pagine, 40 €. Abbiamo chiesto ad uno studioso un contributo di riflessione, a partire dagli argomenti sollecitati dalla pubblicazione.

 

Quanta vita incorporano in sé gli oggetti, quando il loro utilizzo cessa, o quando viene meno la vita di chi li ha plasmati e curati? Quanti valori possono silenziosamente testimoniare gli oggetti stessi, quando non sono più disponibili narrazioni viventi che li facciano parlare? 

Discutendo di patrimoni religiosi sovrabbondanti, ingombranti, dismessi e privi di vita, non può non venire in mente il passo evangelico in cui Gesù, prima del suo ingresso tragicamente trionfale a Gerusalemme, a fronte dei farisei che lo esortavano a far prudentemente tacere la folla troppo osannante, rispose: “Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre” (Lc 19, 40). 

Ma le pietre sanno ancora gridare quando cessa la liturgia che le ha animate, quando si affievolisce l’afflato apostolico che ne ha motivato la costruzione, quando viene meno l’affetto di chi se ne è preso cura? A molti manufatti e a molti luoghi non siamo neanche più capaci di dare un nome, in assenza della vita che ne ha motivato la creazione, l’utilizzo e la manutenzione.

 

Un’eredità di cui prendersi cura

Quando ho iniziato ad occuparmi dei processi di dismissione e de-patrimonializzazione di chiese, alcune pagine de La vita delle cose di Remo Bodei (2009) mi hanno aiutato a capire perché il tema suscita così tanta attenzione, anche ben oltre il campo religioso. Discutendo di oggetti orfani, Bodei rileva che “investiti di affetti, concetti e simboli che individui, società e storia vi proiettano, gli oggetti diventano cose, distinguendosi dalle merci in quanto semplici valori d’uso e di scambio, o espressione di status symbol”. 

Gli oggetti diventano cose in quanto incorporano investimenti intellettuali e affettivi: “li avvolgiamo in scrigni di desiderio o in involucri ripugnanti, li inquadriamo in sistemi di relazioni”. 

Ci ricorda inoltre Lydia Flem – in Comment j’ai vidé la maison de mes parents (2004), ragionando sulla fatica del ricevere eredità affettivamente impegnative, ma funzionalmente inutili – che oggetti e persone “insieme formano una sorta di unità che si lascia smembrare a fatica”. E dunque, quando viene meno la comunità che può far fruttare e capitalizzare gli investimenti intellettuali e affettivi che le hanno animate, le cose – e le chiese, e le case – ridiventano oggetti, e si trasformano in eredità ingombranti, costose, mute, oppure in merci, o status symbol, riprendendo a ritroso il pensiero di Bodei. Interroghiamoci ancora con Flem: “Gli oggetti vivono parecchie volte. Trasmessi a nuovi proprietari, conserveranno qualche traccia della loro vita anteriore? Immaginarli altrove, in altre mani, per usi che si sovrapporranno a quelli che hanno conosciuto in precedenza, non ci lascia indifferenti”. 

No, e infatti immaginare in altre mani monasteri, conventi e case religiose non lascia indifferenti le istituzioni, le comunità e le singole persone che ancora riconoscono legami umani, di natura materiale o spirituale, con quei luoghi.

 

Tra sacralizzazione e de-secolarizzazione

È dunque evidente che si tratta di un problema antropologico e filosofico, prima ancora che religioso, o tanto meno teologico: è chiaro, infatti, che l’annuncio della buona novella non passa attraverso il possesso o il restauro di chiese e monasteri, e che – anzi – le incombenze immobiliaristiche, finanziarie e fiscali di cui la Chiesa si fa carico non fanno che disperdere energie che – ben più volentieri – clero e laicato rivolgerebbero ad altri fini di apostolato e promozione umana. Probabilmente, il riuso di beni religiosi è stato un problema ben più massivo in altre epoche storiche – segnate da espropri, nazionalizzazioni, devastazioni, persecuzioni e vandalismi – senza che questo abbia inficiato la forza evangelizzatrice della Chiesa. 

Peraltro, è noto che, nella teologia architettonica cristiana i beni non sono mai intrinsecamente sacri nella loro consistenza fisica: la sacralizzazione del patrimonio è dinamica recente, di natura sostanzialmente laica (talora addirittura anticlericale) o quanto meno secolare. Il “surinvestissement émotionnel et symbolique” tuttora registrato verso i beni religiosi da Danièle Hervieu-Léger (negli atti del Convegno) nei paesi più secolarizzati ha un qualcosa di paradossale: “La patrimonialisation est, si j’ose dire, l’hommage de la mémoire è l’effacement de la religion”.

Tale sacralizzazione ha tuttavia privilegiato, fino a pochi anni fa, la materialità dei beni; a tal proposito Thomas Coomas ricorda l’attualità del tema della de-secolarizzazione delle politiche patrimoniali (Wijesuriya), ossia l’esigenza di riconnettere la fisicità dei beni con il loro significato spirituale. In questo delicato ambito, i dogmi di riferimento non sono certo quelli teologici, ma i ben più assertivi e ideologici dogmi delle dottrine del restauro, affermatesi negli scampoli finali dello scorso millennio. 

Sebbene dunque il tema non assuma una rilevanza teologica significativa, dalla storia emerge come, al di là dell’evidente richiamo alla trascendenza, è l’immanenza architettonica dell’evangelizzazione che ha alimentato un’incessante dinamica generatrice di luoghi, architetture e manufatti cristiani, dando valore alla corporeità di persone e cose, indissolubilmente legate.

 

Tra territori e carismi, tra cattolicità e spirito dei luoghi

Per questo le istituzioni della Chiesa hanno inteso sottolineare, a livello universale, la necessità di maturare una riflessione sui delicati processi di gestione ed eventuale dismissione del patrimonio culturale ecclesiastico (nel 2018) e del patrimonio culturale religioso (nel 2022). 

La documentazione maturata in occasione del secondo evento è ora oggetto di una pubblicazione, presentata a Roma il 6 marzo. Pur trattando di “cose orfane” – o potenzialmente tali nel giro di pochi lustri – non si è trattato di due eventi luttuosi, o recriminatori, o disfattisti. Anzi: i saggi raccolti nel volume curato da Luigi Bartolomei e Fabrizio Capanni testimoniano una pluralità di sguardi, atteggiamenti, lessici e propositività che è raro incontrare in scritti sulla conservazione e sulla valorizzazione del patrimonio, che sovente si riducono a un esercizio retorico.

I patrimoni degli istituti di vita consacrata da un lato respirano dell’afflato universalecattolico, appunto – della Chiesa, che si è incarnata in una pluralità sostanzialmente illimitata di lingue, culture, espressioni artistiche; d’altro lato, la dinamica di inculturazione della fede ha fatto sì che i patrimoni – nella loro concretezza – si alimentino di tanti sguardi e gesti di cura delle comunità locali, garantendo un’attenzione manutentiva che poche altre categorie patrimoniali sanno suscitare.

Giova anche ricordare la specificità concettuale e gestionale dei patrimoni religiosi rispetto a quelli ecclesiastici. Mentre i secondi fanno della territorializzazione delle istituzioni ecclesiastiche il proprio alveo di significato (sulla base della normatività delle ripartizioni spaziali), i primi – quelli degli ordini religiosi – hanno una logica sovra-territoriale legata a specifici carismi che travalicano le geografie, e che rispondono sia a sensibilità spirituali elettive, sia a specifiche norme di vita comunitaria. Se i patrimoni ecclesiastici si possono interpretare in una logica di territorialità (come aveva evidenziato il documento vaticano del 2018), i patrimoni religiosi trovano invece la propria cifra in una logica di località, e di località messe in relazione – anche a distanza – da specifiche declinazioni carismatiche. 

Un patrimonio religioso geneticamente policentrico e reticolare, irriducibile a una logica centralistica, maturato grazie a un “patrimonio fondazionale” basato sulla memoria, di cui tuttavia “la comunità non può diventare schiava” (Rodriguez Carballo). Nei contributi del volume si intrecciano affetti comunitari e professionalità sofisticate (di natura non solo storico-artistica o teologica, ma anche digitale, economica, tecnica, giuridica civile e canonistica). 

Non risultano pagine angosciate o apocalittiche, anche perché ordini e congregazioni religiose sanno di essere strumenti di apostolato sempre temporanei, che nascono secondo un kairos e un carisma, e vengono meno quando il loro tempo si esaurisce. E le case e cose stesse, venuta meno la loro funzione evangelizzatrice, sono sovente giunte a noi proprio per la loro intrinseca capacità di essere riutilizzate per altre funzioni senza troppi sforzi, per mano esterna o per un’attitudine utilitaristica (talora spregiudicata) degli ordini stessi. 

Paradossalmente, noi possiamo conoscere ora molta architettura religiosa del passato proprio grazie al fatto che, a un certo punto, ha smesso di essere religiosa, e si è salvata grazie a nuove funzioni: “Many of the suppressed religious houses owe their material salvation to sustainable new uses”, ci ricorda Coomans.

 

Pluralità e reticolarità: fragilità o forza?

L’inchiesta che conclude il volume, basata sull’elaborazione di dati relativi a 348 istituti (riferibili a un universo di quasi 20mila edifici), conferma che ordini e congregazioni religiose manifestano una certa indifferenza a sistemi di catalogazione uniformi, associata a un’insofferenza a inquadramenti patrimoniali sovraordinati e a norme universali.

Istituzioni nate in periodi diversi della storia del cristianesimo, e radicatesi autonomamente in continenti diversi, adottano una miriade di strategie di gestione; solo gli ordini più recenti e sviluppati nei contesti meno occidentali hanno dimostrato una sensibilità patrimoniale orientata dal dibattito laico e internazionale.

Questa frammentarietà può essere vista in modo preoccupante ai fini della tutela, ma risulta coerente con la storia ecclesiale, come pacatamente rileva Carlos Azevedo. Il “carattere strumentale” – che sottolinea Bartolomei in conclusione – è il tratto costitutivo della costruzione e della trasformazione storica dei patrimoni religiosi stessi, garantite da un poliedrico equilibrio tra affettuosa preservazione e consapevole dismissione. Riporre una qualche aspettativa di miglior tutela in iniziative esogene, organismi sovraordinati e distanti, o in grandi fratelli di catalogazione universali e normalizzati (che porterebbero incombenze ulteriori a una gestione già gravosa in sé) può avere un senso solo immaginando la mobilitazione di una pluralità di soggetti e di professionalità, con quella creatività carismatica invocata dal titolo. 

Una condivisione di criteri declinati secondo le specificità patrimoniali (lasciando anche una certa creatività nell’individuazione dei patrimoni stessi, da parte di soggetti diversi) può forse essere un percorso più coerente con i processi formativi dei patrimoni stessi. In sintesi, emerge dalle pagine del volume e dell’inchiesta un caleidoscopio patrimoniale, i cui gestori non si attardano in oziosi dibattiti definitori o in formulazioni di carte di princìpi (destinate a rimanere sulla carta, appunto), ma che – in un mondo sempre più complesso – fanno dell’intrinseca trasformatività e mutevolezza dei luoghi religiosi il perno delle proprie strategie adattive. 

La “comprensione strumentale” che Bartolomei riconosce nelle comunità di vita consacrata può essere il miglior antidoto nei confronti delle retoriche patrimonialistiche, da associare all’invito a ripartire dalle intuizioni e dai “patrimoni fondativi” di ogni istituto.

Forse, i gestori dei patrimoni religiosi hanno interiorizzato un altro passo evangelico: “Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (Mt 10, 16). Molti contributi del volume testimoniano proprio questo atteggiamento: la vita può essere conservata nelle cose, o loro restituita, dove si incontrano professionalità sofisticate e comunità affiatate, dove si riesce a dar voce a narrative che sanno raccontare sia fallimenti sia successi che attraversano la storia, dove ogni obiettivo di valorizzazione è calato su un valore riconoscibile, di cui si fa portavoce uno specifico portatore di interesse che può garantirne la sostenibilità.

Immagine di copertina: Chiesa di San Giovanni Decollato a Govone (Cuneo) ora palestra e cine-teatro (@Elena Franco)

Autore

  • Andrea Longhi

    Professore ordinario di Storia dell'architettura al Politecnico di Torino, dove insegna Storia e critica del patrimonio territoriale e Processi storico-territoriali presso il Dipartimento Interateneo Scienze Progetto e Politiche del Territorio (DIST). Docente di storia dell'architettura liturgica presso il Pontificio Ateneo Sant'Anselmo e presso il master in Progettazione di edifici per il culto della Sapienza.

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Last modified: 25 Febbraio 2025