Un progetto editoriale indaga gli insediamenti dei centri di confinamento in Europa. Il (patetico) caso delle due strutture italiane in Albania
Gjadër, Shengjin. Due piccole, ordinarie, vicinissime tra loro, località albanesi a nord di Tirana. Diventate, loro malgrado, epicentro di una discussione che ha profonde ricadute spaziali, emblema di quei luoghi sospesi, di quei campi di confinamento che la storia riporta drammaticamente a galla, complici le dinamiche geo-politiche internazionali.
Reclusi in un non luogo
Qui, in questo angolo di Albania, il governo italiano, in accordo con quello albanese, ha deciso di sperimentare una forma di prima accoglienza dei migranti. Fuori dai confini ma sotto la giurisdizione di Roma. Un campo di confinamento sulla cui legittimità giuridica sono stati sollevati molti dubbi. Tanto da provocare una grottesca – non fosse tragica – impasse con migranti (in numero irrisorio, rispetto alle previsioni del governo) sballottati tra le due coste dell’Adriatico.
Senza gli ospiti (inconsapevoli) per cui è stato costruito, ancora più forte, a Gjadër, è la sensazione di un luogo alieno, non umano né tantomeno urbano. Un’enclave di muri e recinzioni. Una cittadella da circa mille abitanti potenziali: cordoli in cemento armato, reti metalliche alte 5 metri, divisioni in rigidi compound, sequenze di moduli prefabbricati sovrapposti di due livelli. Un paesaggio grigio, con gli unici colori che affiorano dalle pavimentazioni, in forte contrasto con la vallonata campagna rurale albanese: una narrazione di barriere, di reclusione, di viste negate. L’essenza più vera di un “non luogo”, come l’ha definita in una recente intervista il giurista Gustavo Zagrebelski. “Non luogo” pensato per accogliere “una umanità reclusa”.
Come carceri, più delle carceri
Gli elementi edilizi – la loro composizione, le loro forme, i loro materiali – sono orientati a definire l’esperienza che il luogo impone. Gli ospiti (che, è bene ricordarlo, sono nella maggior parte dei casi migranti in attesa di risposta alla richiesta di asilo) non possono muoversi liberamente nemmeno all’interno del perimetro, ogni spostamento dev’essere autorizzato e scortato dalle forze dell’ordine.
Una logica punitiva nonostante non ci sia un reato da punire. Carceri senza un tribunale che abbia sancito una pena. Il tempo trascorre, lento, in spazi recintati, non c’è autonomia, non ci sono attività lavorative o di svago. Il tutto in una situazione di attesa, dove generalmente mancano informazioni certe sul futuro, come anche la possibilità di costruire relazioni con le comunità. Questo non vale (o varrà) soltanto per i centri albanesi di Gjadër e Shengjin. Al netto della questione della territorialità, è la condizione della maggior parte dei campi di confinamento in Italia.
Ne ha parlato, in un recente report, Amnesty International, visitando nella primavera scorsa i centri di Ponte Galeria (Lazio) e di Pian del Lago (Sicilia). Emerge un quadro sconfortante. A un’architettura pensata per limitare ed escludere si sommano infrastrutture e arredi indegni: i letti sono materassi di schiuma poggiati sul cemento; i bagni in pessime condizioni igienico-sanitarie, spesso privi di porte; gli interruttori della luce sono accesi e spenti dalle guardie; non è possibile aprire e chiudere le finestre; gli smartphone personali sono vietati.
La portata del fenomeno è plasticamente restituito da un progetto di ricerca sfociato nel libro Chiusi dentro. I campi di confinamento nell’Europa del XXI secolo (Altreconomia, 2024, 312 pp, 18 € ), curato da RiVolti ai Balcani, una rete di associazioni e personalità fondata nel 2019 per difendere i diritti di chi percorre la rotta balcanica cercando di raggiungere l’Europa.
Visti dall’alto
Il progetto digitale parallelo al libro ha il merito di offrire attraverso le fotografie satellitari una rassegna – ampia, inedita e sorprendente, con 90 centri di detenzione in 15 paesi – degli esiti delle attuali politiche d’isolamento dei migranti nei paesi europei e in alcuni paesi confinanti. «Ma ci permette anche – spiega Federico Monica di Placemarks, uno degli artefici del progetto – di approfondire diversi aspetti legati alla tipologia architettonica dei centri di confinamento e al loro rapporto con i contesti urbani».
Il primo aspetto che emerge è l’assoluto isolamento: le immagini restituiscono cittadelle autonome che si proiettano su un paesaggio indifferente. «Osserviamo una tendenza diffusa all’isolamento di questi centri rispetto al tessuto urbano, con localizzazioni quasi sempre lontane dai centri abitati, in contesti mal collegati e privi di servizi, talvolta separati da barriere fisiche come autostrade, infrastrutture ferroviarie o aree produttive». La tipica struttura emergenziale del campo (grandi tende e tensostrutture) viene progressivamente sostituita con soluzioni sempre intese come provvisorie ma più strutturate, con container o piccoli prefabbricati a farla da padrone.
«In diversi contesti tra cui quello italiano – conclude Monica – è interessante notare come la tipologia dei centri principali ricalchi le forme tipiche dell’edilizia carceraria, con blocchi a corte, mura di cinta a più livelli concentrici e spazi aperti compartimentati da gabbie. Un layout ripreso appunto nei centri realizzati dal governo italiano in Albania».
Se manca un’urbanità fatta di relazioni, ci sono invece, paradossalmente, fenomeni di costruzione di città che si sviluppano proprio a partire da questi centri. Emblematico è il caso del cosiddetto “ghetto” di Borgo Mezzanone a Manfredonia (Foggia). Intorno al Centro di accoglienza per richiedenti asilo (CARA) è nata un’enorme baraccopoli, una città autocostruita che si popola soprattutto nel periodo di raccolta dei pomodori nei campi circostanti. Migliaia di persone che abitano un luogo inabitabile.
«Città di disperati» è lo slogan più spesso usato. Coglie solo una parte del problema: in assenza di un disegno di città – che coinvolge, in maniera così lampante, anche gli interventi pubblici – si sviluppano forme urbane inadeguate che acuiscono le disuguaglianze.
Immagine copertina: il cantiere del centro di Gjadër, una delle strutture realizzate dal governo italiano in Albania (elaborazione immagine: Placemarks – progetto Chiusi Dentro. Dall’Alto – foto: 2024, Airbus)
Sotto: il centro di Samos in Grecia, realizzato a partire dal 2020 sull’omonima isola (Elaborazione Immagine: Placemarks – progetto “Chiusi Dentro. Dall’Alto”. Maps Data: 2023, Google – Airbus) e il CARA di Borgo Mezzanone (FG) nell’area dell’ex aeroporto militare, oggi circondato da un enorme insediamento informale (Elaborazione Immagine: Placemarks – progetto “Chiusi Dentro. Dall’Alto”. Maps Data: 2024, Google – Airbus)
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albania , centri di confinamento , libri , migranti , reclusione , urbanistica
Last modified: 10 Dicembre 2024