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Fulvio IraceWritten by: Professione e Formazione

Italo Rota (1953-2024): un anticonvenzionale cavallo di razza

Italo Rota (1953-2024): un anticonvenzionale cavallo di razza

Ricordo intimo dell’eccentrico protagonista, tra Milano e Parigi, di allestimenti e museografia

 

MILANO. Insidiosa e inaspettata, la malattia l’aveva colpito circa un anno fa e, per quanto provato nel fisico, non aveva ceduto nemmeno per un attimo al suo inguaribile ottimismo. Così se ne è andato nel pomeriggio del 6 aprile Italo Rota a 71 anni: milanesissimo di nascita e formazione, cosmopolita per inclinazione e ragionamento. Quando andavi a trovarlo (e inaspettatamente si faceva davvero trovare in casa), t’incalzava con progetti e idee che assolutamente bisognava portare avanti.

Da architetto e conoscitore delle grandi metropoli del mondo, Italo sapeva che siamo parte di una rete di conoscenze, di esperienze e di problemi che richiedeva la vigile attenzione di uno sguardo totale, disincantato ma al tempo stesso attratto dalle diversità. Un architetto internazionale, un naturista, un collezionista, un artigiano del digitale, un ricercatore di effetti e di affetti che voleva esprimere in ogni sua opera, indipendentemente dalla scala e dalla durata.

Un personaggio popolare ma solitario in fondo, in un panorama che riteneva abbastanza deprimente e contro cui reagiva con la forza delle idee (anche quelle che a molti sembravano strampalate) e con i fuochi d’artificio di un’inventività che faceva scintille.

 

Mai dare nulla per scontato

Con lui (e lo sa bene chi ha avuto il coraggio e la fortuna di lavorarci) nulla era scontato e, alla fine, anche le proposte più ardite o scivolose si rivelavano vincenti contro le titubanze del curatore. Lo sa bene Alessandra Quarto che lo aveva chiamato ad aiutarla nell’allestimento della mostra (fino al 24 giugno; nella foto di Marco Beck Peccoz) al Museo Poldi Pezzoli di Milano sul polittico di Sant’Agostino di Piero della Francesca; lo sa bene anche il sottoscritto, che con lui stava approntando una grande mostra al Musée des Arts Décoratifs di Parigi sul tema dell’«intimità», prevista per l’ottobre di quest’anno. Una collaborazione sperimentata per la prima volta nel 2006 con una stravagante mostra – “Good News” – alla Triennale, che mi aveva colpito per la sua singolare capacità di trasmettere alle opere quell’aura particolare che solo un ingegno sottile è capace di escogitare e portare a termine con esecuzione impeccabile.

 

Il mago allestitore

D’altra parte, i suoi maestri dichiarati erano stati Franco Albini e Carlo Scarpa, maestri dell’allestimento museale ed espositivo per la loro assoluta repulsione delle soluzioni standard e la capacità, al contrario, di formulare ipotesi di visione assolutamente originali ma rispettose dei reperti: fossero quadri antichi e lavori moderni, abiti ed oggetti, automobili e modelli di architettura. Da loro Italo aveva appresso che ogni opera ha il suo segreto e l’architetto allestitore deve essere come un mago capace di farli parlare a distanza di secoli o d’importanza.

 

I musei: una palestra di formazione

A Milano, il Museo del Novecento porta intatto il profumo di questo suo approccio, volto a superare la logica modernista della white box e di ricontestualizzare il lavoro degli artisti del passato in quella trama di colori, di materiali, di forme che riportavano il sangue della contemporaneità in gusci altrimenti opachi e spenti. Tra le sue ultime opere in ambito museale, esemplare è la sistemazione dei Musei civici di Reggio Emilia: un tour de force durato anni per congegnare dentro le sale dell’antico contenitore delle vere e proprie boîtes à surprises: una sala più bella dell’altra, dove video, cinema d’animazione, oggetti di memorie, statue e vestiti antichi, insieme a pupazzi infantili e utensili quotidiani, s’intrecciavano in un discorso armonioso e seducente, che dava inedito risalto all’abusata formula della “narrazione”.

Il museo è stato per Rota una vera e propria palestra di formazione: era giovanissimo infatti quando lasciò Milano per seguire Gae Aulenti a Parigi nella riconversione della Gare d’Orsay, facendosi le ossa (ma forse meglio gli occhi) nell’intricato e scivoloso accrochage di quadri e sculture che mescolavano il banale e il sublime. Credeva molto nel potere di suggestione dell’insieme: nell’aderenza dell’allestimento al contesto, alla sua storia, all’eco delle sue memorie. Per la mostra a Parigi aveva fatto in tempo a disegnare, insieme all’infaticabile scudiero Alessandro Pedretti, sale e corridoi del pomposo edificio ottocentesco: dopo tante visite, aveva capito lo spirito del luogo e intuito la maniera di far vibrare quei lussuosi stucchi e interminabili corridoi, in sintonia con la miriade di oggetti più disparati, per epoca e funzione con cui si articolava il rapporto della società ottocentesca e di quella contemporanea negli oggetti (dal letto ai gabinetti, dalle toilette agli smartphone) con cui uomini e donne son dovuti scendere a patto per stabilire i concetti di privacy e d’intimità.

 

Un anticonvenzionale cavallo di razza

Geniale nell’idea, raffinato come un ebanista nel disegno e nell’esecuzione, Rota è stato un tipo speciale, non sempre facile da affrontare, spesso ribelle nell’accettare regole ma sempre realista nel risultato finale. Quello che si dice un cavallo di razza: quindi da lasciare a briglie sciolte, salvo a richiamarlo con delicata determinazione quando rischiava d’imbizzarrirsi.

Anche la sua casa era come lui: anticonvenzionale al punto da risultare involontariamente snob; bizzarra e fuori misura come le sue mitiche collezioni (da libri e riviste icone del Moderno ai più incredibili ritrovati di Amazon, come le tute degli astronauti o i pupazzi completi dell’Arca di Noè. Lasciava che i gatti passeggiassero su libri preziosissimi (cui anelavano molti musei americani), che ogni tanto graffiassero con le unghie qualche scultura gonfiabile che dominava lo spazio conversazione, perché la natura – in tutte le sue forme viventi, comprese ovviamente le piante – era l’habitat del futuro cui si sarebbe dovuti tutti tornare indietro per andare avanti. Ciao Italo, ci mancherai.

Autore

  • Fulvio Irace

    Docente ordinario di Storia dell'architettura al Politecnico di Milano, è visiting professor all’Accademia di Architettura di Mendrisio. I suoi interessi di studioso si sono indirizzati da molti decenni sull’architettura italiana del 900, con una particolare attitudine (ed empatia critica) verso le figure “minori” (da Mollino a Ponti, da Muzio ad Asnago & Vender, Magistretti, ecc) che oggi costituiscono l'inedita costellazione di una storia “diversa”. Su tali temi ha scritto libri e organizzato mostre (da "AnniTrenta", 1982, a "Facecity", 2012), rifiutandosi di distinguere la storia dalla critica, la filologia dall’interpretazione. In tal senso considera la sua collaborazione alle riviste e al Domenicale de "Il Sole24ore" come parte integrante di un’attenzione alla contemporaneità e di un’idea di critica come doveroso rischio intellettuale

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Last modified: 1 Maggio 2024