Il futuro dell’opera di Siza, da edificio mito a luogo dal restauro ancora lontano in cui il tempo sembra si sia fermato
Il passato
All’inizio degli anni ottanta, Berlino Ovest si appresta a rifarsi il look per l’Esposizione Internazionale dell’Edilizia-IBA avvenuta in due fasi, nel 1984 e nel 1987: architetti come Peter Eisenman, Aldo Rossi, James Sterling e Álvaro Siza vengono invitati a contribuire alla ricostruzione della città del dopoguerra. I loro progetti devono essere concepiti in equilibrio tra un lavoro di delicato rinnovamento urbano e una ricostruzione ispirata da spirito critico.
Inizia il “laboratorio Berlino” che, dando un colpo di spugna definitivo al Bauhaus e al post-Modernismo anni settanta, produce centinaia di architetture iconiche, pietre miliari del contemporaneo. Álvaro Siza Vieira (Matosinhos, 1933) è alla prima vera esperienza progettuale fuori dai confini del suo Portogallo: il suo impatto con la capitale divisa è al contempo scioccante ed eccitante. A impressionarlo non sono certo le vicende politiche in corso (appena sei anni prima, nel 1974, aveva vissuto, dopo decenni di dittatura fascista di Salazar, la Rivoluzione dei Garofani) quanto le incredibili dimensioni di una macro regione che si fa chiamare città i cui vuoti disponibili lasciati dalle bombe sono ancora visibilissimi, convivono coi resti malmessi di edifici guglielmini e Gründerzeit e stimolano la fantasia di architetti giunti da tutto il mondo. Tra le altre cose, non è chiamato a intervenire in un quartiere berlinese qualsiasi: la Kreuzberg che di lì a pochi anni avrebbe attirato investitori di tutto il mondo, l’iconica terra di mezzo della scena alternativa cittadina per eccellenza, portava nel volto i più tipici caratteri somatici della vecchia capitale celebrata da Isherwood e della martoriata città contemporanea. Come per miracolo non inglobata ma stimolata incessantemente dalla massiccia presenza della cortina comunista e della sua linea della morte, ci dialoga gettando continui, furtivi sguardi su quell’altrove che ora anela, ora respinge. Chi vuole viverci non sono certo i berlinesi benestanti, arroccatisi da tempo all’ovest più ovest (che la poetessa Else Lasker Schüler aveva tacciato ai tempi di gran noia), ma i giovani squatters giunti da tutta la Germania occidentale (e che presto porteranno alla rovina del suo mercato immobiliare), affascinati dalla prossimità con la terra incognita ai margini della città nota e dall’anarchia dei suoi spazi, i suoi pochi superstiti inquilini di sempre, rimasti per inerzia, e centinaia di migliaia di immigrati che arrivano ogni giorno soprattutto dalla Turchia. Chi passeggia oggi per il Bergmannkiez o sulla Oranienstrasse non potrebbe credere ai suoi occhi se vedesse la Kreuzberg del tempo.
A un centinaio di metri e rotti dalla strepitosa, neo-rinascimentale Hochbahnhof della metro di Schlesisches Tor si trovava un lotto chiuso tra Altbauten originali provvisoriamente datosi la forma di un trapezio, con piccoli negozi a un piano sul lato strada e sul retro un’area abbandonata agli sterpi, proprietà di una società immobiliare di lì prossima al fallimento. La sua conformazione era perfetta per l’idea di Siza di creare un blocco residenziale che mantenesse al piano terra le attività commerciali e/o degli spazi sociali e sui livelli superiori gli alloggi per piccole famiglie/pensionati. L’idea di un blocco sensibile al contesto con facciate regolari e con negozi sul piano strada era quasi rivoluzionaria dopo gli anni dello sfrenato modernismo anti-urbano anni settanta.
Nel suo progetto originale erano previsti quattro grandi appartamenti per piano, accessibili tramite quattro scale: unità abitative miste, nuovo ibrido made-in-Berlin che sarebbe presto diventato la norma nella nuova architettura domestica della capitale riunificata in perenne apnea di alloggi; Siza voleva anche creare un club per gli anziani ma dovette rinunciare, per mancanza di fondi, a questa e a quell’idea. Del suo lungimirante progetto furono realizzati solo dieci appartamenti per pensionati, entro lo schema di sette piccoli appartamenti per piano per un totale di sei piani più tetto; le finestre e le altezze dei soffitti furono ridotte per creare più spazio per le abitazioni servite da due soli grandi vani scala.
Berlino Ovest, come detto, aveva fame di appartamenti, gli spazi sterminati esclusi dal Muro non si erano ancora aperti, e nella piccola Istanbul del Wrangelkiez c’era spazio per pochi abbellimenti. Qui più che mai era necessaria una buona dose di brutale concretezza degnamente celebrata poi da un anonimo graffiti artist del tempo poco prima che venissero smontate le impalcature del cantiere: con la sua citazione letteraria del classico di Françoise Sagan, spruzzata grigio scuro su grigio sopra l’occhio appena stilizzato dall’architetto sul frontone ad angolo, BONJOUR TRIƧTEƧƧE (con la S rigorosamente al contrario) entrò nel mito di Berlino. Si narra che Siza non la prese proprio bene e che avesse chiesto di far ridipingere tutta la facciata, beccandosi però un secco no di ritorno dalla committenza rimasta senza fondi per qualsiasi minima correzione postuma. Quell’opera di graffitismo fu il vero e proprio battesimo di un lavoro che altrimenti per i più sarebbe rimasto anonimo, come in un apprendistato religioso confermato circa 20 anni dopo da un altro sacerdote della street-art (nella sua mecca del Wrangelkiez), che lo marchiò nuovamente con la stranota scritta rosso fuoco: “BITTE LƎBN” (Vi prego, vivete!), un incoraggiamento per i berlinesi, passata la Wende, a reagire.
Il presente
A Berlino se dici: “Ci vediamo a Kreuzberg, sotto Bonjour Tristesse” ti capiscono tutti. È letteralmente un tópos collettivamente riconosciuto da cittadini e storici dell’architettura all’inizio rimasti piuttosto freddi nei confronti del suo contributo all’identità postbellica della città, nonostante, come scrissero sulle pagine della Berliner Zeitung: “le file presuntuose, monotone e provocanti delle anonime finestre disegnate da Álvaro”. L’angolo Schlesische-/Falckensteinstraße a lungo presidiato da una chiassosa pizzeria al piano terra vede oggi altre più piccole, affiancate attività commerciali annunciate dalle loro insegne di cattivo gusto. La zona dello zoccolo dell’edificio, così come la finitura del tetto, non è riconoscibile da questa prospettiva. Solo dalla distanza, di là dalle due grandi arterie di traffico su cui si affaccia, è possibile apprezzare il complesso dal profilo leggermente ricurvo, la superficie continua plasmata come un blocco unico d’argilla.
Notevole rispetto al contorno rimane la scelta del leggero innalzamento del parapetto del tetto solo nella porzione ad angolo come se si trattasse più che di un frontone classico convesso, di una fronte vera e propria che gli dà un volto umano con tanto di occhio singolo, ciclopico, al centro. L’alta struttura a 6+1 piani mostra ancora oggi la natura del lavoro di Siza, la sua sensibilità per l’ambiente circostante, la forza con cui è riuscito visivamente, senza clamori, a unire in un movimento fluido gli edifici adiacenti completando con efficacia l’angolo rimasto a lungo irrisolto dell’isolato, un gesto scultoreo ripreso anche nella parte posteriore dell’edificio da una piccola curva concava, mentre i prospetti sono caratterizzati da una fitta e regolare griglia di finestre che riflette il tipico ordine e ritmo degli edifici storici dell’intorno.
La forma curvilinea del prospetto continuo è un efficace riferimento all’espressionismo tedesco che convive mirabilmente col rigore richiesto dalla committenza grazie alla creazione di una facciata perforata. Le distanze tra le singole aperture sono infatti uguali in altezza, sui lati e sugli angoli: questa monotonia, inscritta in quel primo movimento ondulato, è forse l’elemento che più colpisce e anticipa che non si tratta di un edificio per uffici ma per le persone.
Il futuro
Dalla Sindrome di Stendhal alla Sindrome di Schlesi (da Schlesisches Tor), scrive un commentatore sul noto settimanale locale “Zitty”, il passo è breve, solo che qui non sei sopraffatto dalla placida e maestosa bellezza di una Santa Croce fiorentina ma “dalle esperienze sensuali del Wrangelkiez (graffiti… kebab e birra in lattina… musica techno) e mentre le corde vocali producono solo mugugni, lo stomaco si ribella… ecco di nuovo il piacere e il peso di vivere al ritmo del tempo… e sospettare segretamente di contribuirvi in prima persona”.
Vale per oggi; varrà anche per domani? Molti chioschi, caffè, ristoranti, botteghe di barbiere e bar della “piccola Istanbul” vivono oggi grazie ai feticisti del tempo libero e ai nostalgici degli anni ottanta; i loro proprietari abitano quasi tutti dietro l’angolo. In una Berlino proiettata al futuro sembra che qui il tempo si sia fermato ma è difficile credere che tutti qui siano favorevoli a un ritorno a quegli anni pre-1989. Sembra il più assurdo dei paradossi. Che ne sarà domani di Bonjour Tristesse e dei suoi squallori retrò pagati da giovani hipster ed artisti australiani, britannici, americani (ma anche francesi ed italiani) come fossero alta moda? Le famiglie di immigrati abiteranno ancora nel palazzo invecchiato dalle intemperie dove il grigio più che un colore è uno stato d’animo catturato da uno sconosciuto artista di strada? Oggi quella citazione è un motivo fotografico per instagrammer a caccia di motivi vintage-cult, ma nell’era avanzata di Tik-Tok e di X è molto probabile che il suo charme tramonterà, forse inglobato in un fosco atmosferico assoluto alla “Blade Runner”, forse nell’utopia verde in cui crede la sindaca del Bezirksamt Friedrichshain-Kreuzberg che vuole circondarlo di spazi verdi e riqualificati. La popolazione non sembra curarsene poi tanto: la frustrazione dei residenti per niente alla moda in un quartiere così trendy si è evoluta in un lassismo di semplice, placida accettazione: “Prevale la voglia di esserci, nessuno vuole discutere dell’aumento degli affitti e dei marciapiedi congestionati. Perché a volte è ridicolo e persino ipocrita”.
“Per favore, vivete!”, recita a chiare lettere lo slogan anarchico dipinto sul muro. Ma, come diceva Oscar Wilde, qui più che vivere si sopravvive, non pensando al futuro. A questa narrazione pacata dei fautori del multi-kulti, vittime e complici di una Schlesi in mano agli spacciatori, si contrappone quella della politica che con la scusa di ripulire, sembra voler trasformare questa Kreuzberg in una nuova Prenzlauer Berg: sarebbe la sua definitiva Caporetto. Intanto a novembre scorso sono stati annunciati i lavori per l’aggiunta di una pista ciclabile protetta su tutta la Schelsische Str. (circa 750 metri, con una larghezza standard di 2,25 metri su entrambi i lati e con una striscia protettiva larga 75 centimetri per il traffico in movimento; con cordoli adesivi con una larghezza di 30 centimetri e i cosiddetti “Leitboy”) all’insegna della sicurezza e di una maggiore vivibilità. Quanto al nostro Bonjour Tristesse, non si parla ancora di un restauro; i suoi 40 se li porta discretamente e gliene auguriamo altrettanti e oltre accompagnati dalla musica della sua propria colonna sonora (con tanto di video girato dalle sue finestre da una dei suoi abitanti: https://youtu.be/_d5jSToOmIc?si=kWoTvS9_VxIf5WZk).
Immagine di copertina: © Francesca Petretto
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Last modified: 29 Giugno 2024