Presentata la IV edizione del rapporto sullo stato del design italiano realizzato da Fondazione Symbola
È stata presentata il 20 aprile la IV edizione del Rapporto Design Economy, realizzato da Fondazione Symbola con Deloitte Private e Poli.Design. L’evento, ospitato all’interno dell’ADI Design Museum, si colloca di diritto tra i momenti annuali di maggior interesse per coloro che analizzano, attraverso dati e storie, lo stato di salute del design italiano, delle produzioni, degli investimenti, della competitività e della formazione made in Italy. Al fine di evitare confuse sovrapposizioni tra le riflessioni dei protagonisti del talk e l’analisi critica dei dati, dedichiamo al rapporto due puntate: le parole e i numeri, lasciando a questo secondo articolo le considerazioni del presidente e del direttore della fondazione Symbola.
Basta con il “piccolo e bello”
Gli interventi iniziali sono stati affidati a Luciano Galimberti, presidente ADI, e ad Ernesto Lanzillo, Deloitte Private Leader Italia. Galimberti si è soffermato sulla collaborazione con Symbola e sulla necessità d’intervenire in maniera ancora più incisiva nella raccolta e nella lettura dei dati sulla fisionomia che il design italiano assume nella sua evoluzione. Lanzillo ha invece prelevato dallo studio alcune ataviche peculiarità e anomalie del sistema imprenditoriale italiano, ovvero: “piccolo e bello” non è più un paradigma accettabile; la dimensione delle PMI non permette una stabilità strutturale nel lungo periodo. L’essere piccoli porta ad una sempre crescente necessità d’integrazione con aiuti e aggregazioni, aspetti all’interno dei quali il ruolo del design può essere centrale.
Visioni future, ombre e barriere
Di grande spessore e apertura gli interventi di Francesco Zurlo, Presidente POLI.design e preside della Scuola del design, e Maria Porro, presidente Salone del Mobile. Zurlo, in pochi minuti, ha concentrato una serie di riflessioni e delineato possibili visioni future, partendo dalla constatazione che i designer sono abituati ad operare (e lottare) nella (e contro) la complessità. E la capacità di affrontare contesti variabili deriva anche dal fatto che la formazione sul design non ha confini ben definiti: “è la formazione di un poliglotta” consapevole che un buon progetto nasce dal consesso di più attori (tecnici, operatori di mercato, imprenditori).
Si registrano anche delle ombre, sistemiche (oggi si parla di riforma dei saperi, ma lobby molto potenti non sono disposte ad “inquinare” le caratteristiche disciplinari verticali concedendo spazio a chi desidera professioni “ponte” tra i saperi). E poi le barriere in ingresso (il solo Politecnico di Milano registra 7.000 domande su 900 posti disponibili nelle lauree triennali) e in uscita (il monitoraggio del Career Service riporta che i livelli di prima occupazione dei laureati triennali non sono comparabili con quelli di coloro che hanno conseguito la magistrale, a dimostrazione che l’esercizio del progetto ha bisogno di tempo per poter essere realmente spendibile).
Altro spunto interessante deriva dall’analisi delle specializzazioni: se sono ancora molto attrattive le competenze di prodotto e digitali, un vero e proprio boom si registra nel mondo della progettazione dei servizi e della consulenza strategica (+45%). In altre parole, i giovani designer entrano con maggiore facilità nelle stanze delle decisioni e contribuiscono sempre più alla definizione delle strategie.
Zurlo ha poi evidenziato come gli stimoli all’evoluzione della professione arrivino anche dall’esterno: come nel caso di una richiesta di “operatori di prossimità”, designer che si occupano di servizi e strategie, co-design, facilitazione, creatività diffusa. Il sistema non è ancora pronto a formare questo tipo di operatori, chiosa senza remore il preside della Scuola del design.
Il tema della bellezza, infine, centrale tra i principi del New European Bauhaus. I designer, per certi versi, sono operatori culturali che si occupano di bellezza, la ridefiniscono perché essa è un obiettivo, ma anche un concetto molto ampio; per certi versi, è il destino italiano. Con due precauzioni: attenzione a parlare di bellezza in contesti imprenditoriali (come si coniugano bellezza e produttività?); bellezza è anche la capacità di costruire identità in un’ottica universalista. Sta a noi, quindi, formare dei buoni cittadini e non solo dei bravi designer.
Arredo, costruzioni, ceramiche, moda
Porro, dopo aver ricordato i passi della collaborazione con Symbola in un percorso iniziato in Assarredo, descrive alcuni punti chiave del decalogo di Federlegno in materia di sostenibilità, intuizione nata in tempi non sospetti. I primi risultati provenienti da una ricerca riportano che il 60% delle aziende sono certificate FSC e che il 40% delle aziende che usa energie rinnovabili copre con le stesse più del 50% del proprio fabbisogno. E poi le strategie di responsabilizzazione sui concetti di riparabilità e fine vita, la formazione nello scrivere un bilancio di sostenibilità, l’impegno nella creazione di una cultura condivisa con il consumatore finale. E anche il Salone si veste di green, grazie alla stesura di linee guida per gli allestitori in termini di materiali, logistica, catering; oltre all’installazione di Mario Cucinella Architects su un’area di 1.400 mq, una grande materioteca di materiali sostenibili pronti per applicazioni industriali. Un decalogo “dalla sorgente all’estuario” (così lo definisce Porro), consapevoli delle possibilità d’incidere sull’intero processo e di mettere a sistema la conoscenza; un piano attuativo per riaffermare la leadership italiana attraverso la sostenibilità.
Un po’ in controtendenza l’intervento di Regina De Albertis, presidente Assoimpredil, che chiede di restituire centralità al settore costruzioni, considerato il principale motore per la sostenibilità a livello planetario. Con alcune note di attualità come la mancanza di materie prime, con riferimento all’argilla bianca proveniente dal Donbass che sta mettendo a dura prova il distretto della ceramica di Sassuolo, assieme ai costi energetici che hanno provocato lo spegnimento di alcuni forni. Obiettivo? Trovare prodotti alternativi in tempi brevissimi, tornare ad esempio all’argilla rossa anche se considerata di minore qualità, puntare ad obblighi normativi che aiutano ad accelerare la transizione verso nuovi obiettivi.
Loreto Di Rienzo, co-fondatore Gruppo Dyloan, si considera invece un technology ambassador. Tecnologie e design possono invertire i modelli di business nel settore moda e contribuire a ridurre gli enormi impatti ambientali generati da tessile-abbigliamento-calzaturiero. Esempio? Il problema dei capi invenduti, figli della logica (superata) del produrre per poi vendere, sulla quale bisogna intervenire attraverso la digitalizzazione, stimolando le imprese produttrici di tecnologie a customizzare là dove il consumatore acquista.
Interessanti le dichiarazioni di Cristina Favini, responsabile per il design e le strategie di Logotel, che rileva nel rapporto Symbola un grande paradosso. Da un lato un contesto che ci propone ogni giorno nuove sfide, dall’altro il 26% degli intervistati non considera la sostenibilità un’urgenza. Bisogna allenare la sensibilità e la capacità di cambiare la visione. Un tempo si mettevano al centro del progetto le persone, mentre oggi occorre mettere al centro le comunità. Qualsiasi discontinuità o innovazione dev’essere accompagnata dalla capacità di rendere tangibile il cambiamento, altrimenti nessuna scintilla mai s’innescherà. Senza la dimensione culturale il resto non succede, ma l’approccio culturale richiede tempo e il tempo stringe.
Occhio al packaging
Le conclusioni sono state affidate a Carlo Montalbetti, direttore generale Comieco, che si è soffermato sul packaging: i dati provenienti dal rapporto vedono un progressivo impegno futuro dei designer in tale direzione (gli imballi sono beni a metà tra il personale e il comunitario, proprio perché generano una serie di effetti importanti sulle comunità). Gli imballaggi, prodotti per loro natura umili, sollevano grandi questioni come l’equilibrio sottile tra il bello e il buono.
Due saranno quindi le componenti di valore. Da un lato, il valore della metamorfosi, la capacità di trasformarsi mantenendo la propria natura: l’imballaggio può infatti avere più vite, dipende da come è stato studiato. Dall’altro lato, il valore dell’accoppiamento e dell’incrocio tra materiali, per contribuire ad una funzione finale comune. Recuperare, ricostituire, rigenerare questi materiali sarà la vera sfida futura. In tutto ciò c’è in ballo la scienza: la competenza sui materiali sarà una questione determinante per i designer del futuro. Basti pensare a come la pandemia ha cambiato i processi di acquisto del cibo e la necessità di trasportare alimenti verso le abitazioni avvalendosi di contenitori con materiali e prestazioni particolari. Imballi che non potranno più essere progettati senza avere un “destino” nella propria idea ispiratrice.
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economia , rapporti
Last modified: 2 Maggio 2022