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Emanuele PiccardoWritten by: Forum

Gli oligarchi dell’architettura

Gli oligarchi dell’architettura

Le reazioni alla guerra in Ucraina sollevano riflessioni sullo star system internazionale e sulla natura della professione oggi, in attesa di un cambio di paradigma

 

Gli architetti fin dall’antichità sono stati al servizio del potere non sempre democratico, spesso espressione di dittature. Un fenomeno non certo circoscrivibile al Novecento: architetti, pittori e scultori hanno avuto per committenti papi, duchi e principi che facevano uso della tirannia e della guerra nello stesso modo in cui Vladimir Putin ha conquistato il potere nell’ex URSS.

Le città per potersi sviluppare hanno sempre avuto bisogno dell’architettura per definire la struttura politica di una società. Qualche anno fa, in un discutibile libro, Le Corbusier veniva considerato sostenitore dei dittatori Stalin e Mussolini, confondendo il bisogno estremo di trovare occasioni per poter realizzare la Ville Radieuse con l’appartenenza all’ideologia fascista. Niente di più falso. Ma Le Corbusier almeno ha avuto il merito di cambiare radicalmente il modo di abitare, di cui oggi godiamo i benefici.

Il discorso è diverso se guardiamo agli architetti contemporanei, sempre pronti a diventare “amici” dei tiranni, Putin o Xi Jinping, solamente per ottenere più profitto. Non per costruire opere che possano cambiare la vita delle persone ma per celebrare il proprio ego e quello dei loro committenti. Le realizzazioni in Cina e Russia firmate dai big dello star system architettonico sono operazioni di facciata, per distogliere l’attenzione dai problemi in cui versano le società, spostando il gioco su altri piani.

Ma gli architetti si dividono in due categorie: quelli che agiscono silenziosamente in ogni stato, senza distinzione tra dittature e democrazie, mirando unicamente al profitto; e quelli che dichiarano senza ipocrisia di lavorare per il mercato. Alla prima categoria appartengono Massimiliano Fuksas, Herzog & de Meuron, Zaha Hadid, Daniel Libeskind, Norman Foster; nella seconda rientra un solo protagonista, Rem Koolhaas.

D’altronde Koolhaas il suo cinismo lo ha sempre dichiarato, applicato e rinnegato, come avviene nella recente ricerca sulla campagna come luogo da abitare nel futuro (Countryside A report, 2020). Dal teorico del Junkspace e delle metropoli afro-asiatiche un bel triplo salto ideologico, ma preferibile all’ipocrisia dei sopracitati colleghi “archistar”.

L’architettura intesa come materializzazione di un pensiero che si fa oggetto, forma, funzione linguaggio, non appartiene al modo in cui oggi gli architetti costruiscono; insomma, costruiscono un palinsesto per giustificare interventi improbabili. Soluzioni uguali e consolidate, forme sinuose, facciate come pelle di un essere vivente, facciate verdi, che ne omologano l’esito estetico e costruttivo senza poterle definire architetture necessarie. Quello a cui assistiamo è lo sproloquio di parole, significanti e significato che poi non si percepiscono nella lettura dell’architettura contemporanea. Per questo troviamo ancora interessanti le innovazioni di Yona Friedman, Richard Buckminster Fuller, Frei Otto, le sperimentazioni dell’architettura radicale, del TeamX o di Paolo Soleri, essenzialmente per paura di rischiare, preferendo il comfort del déjà vu.

In alternativa assumono sempre più valore, a volte con ragione a volte no, pratiche nuove ma antiche come le costruzioni in paglia, terra cruda, legno, mattoni, in Africa e in America Latina. Siamo sempre più disorientati, mentre siamo affascinati da pratiche di architettura sociale progressiste, fatte per le comunità più povere e abbandonate, che non si riescono a replicare in Italia e in Europa per colpa della burocrazia.

Così per seguire l’onda del politically correct, dopo le Biennali di Paolo Baratta in cui l’essere umano è stato messo al centro del progetto di architettura (si vedano le edizioni curate da Alejandro Aravena e da Hashim Sarkis), anche il Premio Pritzker si adegua. Quest’anno è stato infatti assegnato con merito a Diébédo Francis Kéré, grande architetto africano che ha basato la sua poetica sul concetto di “architettura povera”, con materiali non sofisticati, a basso impatto, che riesce a costruire architetture necessarie. Ora tutti applaudono al premio, quando fino a ieri osannavano Herzog & de Meuron e Koolhaas. Come si fa presto a cambiare idea, senza coerenza ma con opportunità mutanti.

Non si può dunque prescindere da un principio universalmente noto, ovvero che una buona architettura sia tale per la compartecipazione di una committenza responsabile e di un’altrettanto spiccata capacità progettuale dell’architetto. Tuttavia si dovrebbe cambiare paradigma, non agendo esclusivamente per il profitto senza pensare ai contesti in cui si va ad operare. In questo senso sono ipocrite le dichiarazioni di Foster e di Herzog & de Meuron sui loro canali instagram, in cui informano i loro fan sulla sospensione dei lavori in Russia, come se prima non conoscessero un contesto non democratico e privo dei diritti civili fondamentali. È il mercato bellezza!

Tuttavia l’unico coerente, cinico ma lucido, anche a costo di essere contradditorio, caratteristica che appartiene all’essere umano, rimane sempre Rem, l’olandese volante.

 

Immagine di copertina: Foster + Partners, Mobility Pavilion all’Expo Dubai 2020

Autore

  • Emanuele Piccardo

    Architetto, critico di architettura, fotografo, dirige la webzine archphoto.it e la sua versione cartacea «archphoto2.0». Si è occupato di architettura radicale dal 2005 con libri e conferenze. Nel 2012 cura la mostra "Radical City" all'Archivio di Stato di Torino. Nel 2013, insieme ad Amit Wolf, vince il Grant della Graham Foundation per il progetto “Beyond Environment”. Nel 2015 vince la Autry Scholar Fellowship per la ricerca “Living the frontier” sulla frontiera storica americana. Nel 2017 è membro del comitato scientifico della mostra "Sottsass Oltre il design" allo CSAC di Parma. Nel 2019 cura la mostra "Paolo Soleri. From Torino to the desert", per celebrare il centenario dell'architetto torinese, nell'ambito di Torino Stratosferica-Utopian Hours. Dal 2015 studia l'opera di Giancarlo De Carlo, celebrata nel libro "Giancarlo De Carlo: l'architetto di Urbino"

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Last modified: 29 Marzo 2022