Riceviamo e pubblichiamo una replica sul destino del comparto industriale dismesso a Napoli
La lettera a firma di Gerardo Mazziotti, dedicata all’annosa vicenda dell’area ex Ilva di Bagnoli, solleva delle perplessità e merita alcune osservazioni. Tra i principali punti del semplicistico elenco di cose da fare per consentire la bonifica dell’intera area, secondo l’autore vi è la demolizione dei resti superstiti dell’impianto industriale perché essi sarebbero “privi di valore estetico e storico”.
L’affermazione denota disinformazione sul lavoro compiuto a suo tempo per tali edifici, ma soprattutto fornisce una singolare interpretazione del concetto di bene culturale. A parte la banale negazione dei valori estetici all’edificio industriale storico (accanto alle “arti del bello” come non collocare le “arti dell’utile”?), il monumento industriale non solo è “storia” per gli anni che conta, per le ragioni che l’hanno voluto, per i contenuti di conoscenza che esprime, per i legami con le generazioni di operai e tecnici che l’hanno abitato e usato, ma è “bene culturale” perché, come dimostrano ormai le decine di siti industriali (tra cui anche un paio italiani), entrati a far parte dei beni riconosciuti come tali in tutto il mondo industrializzato (e non solo) anche nelle selettive liste del World Heritage Unesco, è testimone e custode di saperi, di storie umane, di eventi tecnici, di valori produttivi. In altre parole, è divenuto “patrimonio”. L’autore invece risparmia le “candele”, cioè le ciminiere superstiti. Sono solo esse portatrici di valori estetici o degne di utili riusi negati invece agli altri edifici?
La vicenda che portò al salvataggio di alcuni esemplari dell’architettura industriale dell’ex Ilva costituì, subito dopo la dismissione dell’impianto, l’avverarsi di un sogno, quello della conservazione dei caposaldi della memoria della fabbrica che era stata la motrice della redenzione di Bagnoli dalla sua secolare marginalità e dell’edificazione della sua centenaria storia industriale. Si trattò di un coraggioso esperimento che prese corpo durante le fasi della rottamazione di ciò che restava della fabbrica. Mentre nasceva l’idea di convertire l’area in un grande parco urbano, tra il 1998 ed il 2002, grazie all’accordo tra il Comune di Napoli, l’IRI, allora proprietaria di area e impianti, e la Soprintendenza (proprio essa, si badi bene!), un gruppo di ricercatori dell’Università di Napoli, appassionati cultori di quell’«archeologia industriale» relegata da Mazziotti al ruolo di sottocultura, condusse una ricerca sulle cartografie, sui documenti, sui grafici originali degli impianti ed infine sul campo, che permise di selezionare un gruppo di edifici-simbolo, legati tra loro dal filo conduttore della storia del processo produttivo che aveva guidato la vita della fabbrica, dall’arrivo delle materie prime fino alla produzione dell’acciaio. Ne scaturì così il salvataggio degli attuali sedici edifici, tra cui l’altoforno e la grande acciaieria. Ad essi si è aggiunto il pontile nord, forse oggi uno dei più lunghi Pier del mondo. Dopo un restauro parziale, nel 2005 esso è stato destinato a passeggiata pedonale, recuperando uno spazio di eccezionale valore paesistico e ricreativo. Ma l’autore della lettera ne chiede l’«abbassamento alla quota di via Coroglio», dimenticando che non solo si tratta di un manufatto nato nel 1918 e cresciuto nel tempo fino alla lunghezza di 950 metri, ma costruito su poderose strutture in cemento armato alte 9 metri e praticamente indistruttibili.
Gli edifici conservati come memoria del ruolo dell’industria siderurgica a Napoli nell’intero XX secolo e destinati nel programma originario ad essere collegati tra loro in un vero e proprio “parco a tema” avrebbero dovuto illustrare, con la loro rifunzionalizzazione, le fasi del ciclo della produzione siderurgica. A distanza di oltre venti anni dobbiamo registrare il loro abbandono al degrado e ad un lento e drammatico disfacimento. La questione delle bonifiche dei suoli dell’ex Ilva (200 ettari) e della colmata a mare (cioè dei circa 13 ettari sottratti al mare durante una delle ultime fasi di crescita dell’impianto), sono solo una parte dei gravi problemi dello stallo in cui versa ormai da oltre venti anni l’area dismessa di Bagnoli. Quella che sembrava una risorsa straordinaria si è poi rivelata, anno dopo anno, un ennesimo fallimento della classe politica e del ceto dirigente della città, mandando all’inferno la riqualificazione dell’area che, con la sua cornice archeologica, paesistica e naturalistica, potrebbe anche aggiungere una forte attrattiva turistica alle altre della città.
Immagine di copertina: foto di Emanuele Capasso
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lettere al Giornale , magazzini industriali , memoria , napoli , rigenerazione urbana
Last modified: 7 Giugno 2021