Un dialogo con il curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Architettura di Venezia sui temi della resilienza del costruito, della città e delle trasformazioni urbane. Con il suo studio Heliopolis 21 e gli svizzeri Diener & Diener Architekten è progettista del nuovo polo San Rossore 1938 dell’Università di Pisa, al centro della quarta monografia della collana “Radiografia del contemporaneo”
Il Polo San Rossore 1938 è il nuovo complesso che l’Università di Pisa ha completato nel pieno centro storico della città. Progettato dagli svizzeri Diener&Diener Architekten e dai pisani Heliopolis 21, è un esempio di come il nuovo costruito può rendere la città consolidata più organica e pronta per adattarsi alle necessità future.
1. Come sono nati il progetto del nuovo polo San Rossore 1938 dell’Università di Pisa e come si è sviluppata la collaborazione con gli svizzeri Diener & Diener?
Sono convinto che le trasformazioni organiche, cioè quelle destinate alla multifunzionalità e alla riappropriazione dello spazio pubblico in favore delle comunità, specialmente in contesti urbani consolidati e compatti, possano contribuire alla resilienza delle città più della nuova costruzione oltre i confini attuali. Su questi presupposti è nato il progetto del polo universitario a Pisa. Da questo punto di vista, per il loro potenziale rigenerativo e la contaminazione con altre forme di arte, ho sempre trovato convincenti le opere di Diener & Diener, come le estensioni dell’ambasciata svizzera a Berlino e del Centro Pasquart a Biel. In quel periodo ero spesso a Basilea, e quindi ci è sembrato naturale invitare a collaborare al progetto Roger Diener, con cui avevo lavorato a una mostra.
2. Questo progetto è una dimostrazione di come le architetture e le trasformazioni urbane possano essere resilienti, anche in contesti molto delicati. Come è stato reso resiliente il rapporto tra contesto e nuova opera?
Abbiamo dedicato molto tempo allo studio degli allineamenti e delle proporzioni degli edifici circostanti e delle aperture. Non solo per ragioni di carattere storico e di rispetto per il contesto. Dati alla mano, infatti, pensiamo che la strategia più efficace per rendere le comunità veramente resilienti sia quella di puntare alla compattezza delle città attraverso strutture versatili, integrate volumetricamente nel tessuto urbano e in grado di adattarsi a necessità future in scenari non previsti. Il polo universitario è stato progettato pensando che tra 20 anni possa anche essere qualcos’altro. Per questo, anche la sua espressività è affidata a un esoscheletro strutturale, altamente performante sia dal punto di vista sismico che termico, capace di rendere l’interno riconfigurabile in ogni momento. Anche la totale assenza di intonaco, cornici e decorazioni, più che un richiamo stilistico al minimalismo, esprime la volontà di ridurre l’energia grigia in favore di un’ottimizzazione del ciclo di vita dell’edificio.
3. In quali altre forme si manifesta la resilienza di questo nuovo polo?
Oltreché nei dispositivi passivi e attivi, la sua resilienza si manifesta nella polifunzionalità, che riflette, in architettura, il principio della biologia dell’evoluzione secondo cui la natura opera sempre in economia, cooptando le stesse strutture per più funzioni. Così il polo accoglie, negli stessi spazi, sia la funzione universitaria che quella di memoriale destinato alle vittime della Shoah, un giardino e una piazza coperta disegnati secondo i principi dell’accessibilità universale. Queste contaminazioni di usi sono in linea con l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite che indica, riguardo alla resilienza, la necessità di integrazione tra le questioni ambientali e quelle riguardanti la giustizia sociale.
4. A che punto siamo in Italia nello studio, nella progettazione e nella realizzazione della resilienza? Quali sono le direzioni verso cui guardare e i contesti maggiormente avanzati?
In Italia c’è una consapevolezza diffusa della portata delle crisi ambientali globali. Le iniziative che provano a “scalfire” la convenzionalità del progetto urbano oggi sono molte. Tuttavia la maggior parte si ferma a soluzioni operative o tattiche, per esempio attraverso forme isolate di integrazione del verde, e di generazione di energia. Quello che spesso manca è una visione strategica e sistemica che sia anche al centro dell’educazione dell’architetto. Occorre sperimentare e credere che un’architettura intrinsecamente ecologica sia ancora possibile e anche questa possa costituire una vera a propria dorsale dell’intero territorio nazionale.
In passato, proprio una parte del mondo accademico, seppure minoritaria, ha guardato con sospetto, forse per spirito di conservazione, alla necessità di rivedere le tassonomie dell’architettura in chiave ambientale. Se è vero che le costruzioni sono tra le principali cause del cambiamento climatico, dovremmo ammettere che oggi il trasferimento di conoscenza, nell’insegnamento, è meno importante rispetto alla capacità di stimolare la creatività, anche eversiva e visionaria, delle nuove generazioni.
Nella ricerca Climate Resilient Nexus Choices (CRUNCH), ho coordinato la costituzione di laboratori urbani permanenti in 6 città (Miami, Eindhoven, Uppsala, Taiwan, Danizca e Southend on Sea). Sono progetti urbani che riguardano la gestione integrata (nexus) di cibo-acqua-energia-rifiuti. Abbiamo capito che i problemi, se affrontati in modo sistemico e integrato, possono offrire opportunità inaspettate.
Un’altra lezione importante proviene dalle regioni del Pacifico e caraibiche, dove l’estremizzazione del clima, oggi, ci aiuta a capire come dovremmo affrontare condizioni simili nel prossimo futuro. Dalle ricerche che ho condotto in Nuova Zelanda, prima, e a Grenada e Dominica, più recentemente, emerge che in architettura e urbanistica la comprensione dei principi della fluidodinamica sia oggi cruciale almeno quanto quella della tradizionale scienza delle costruzioni. La realtà che ci circonda non è statica, ma fluttuante, in continuo cambiamento e ogni agente all’interno dell’ecosistema è una presenza attiva.
Non esistono condizioni di passività, né da parte dell’uomo né dell’ambiente. Quello a cui dobbiamo stare attenti, allora, è che il ciclo di azioni e reazioni che sta alla base di questo continuo mutare non sia così veloce da far sì che l’uomo non abbia le risorse evolutive per sopravvivere. Parlare di resilienza significa questo: operare senza compromettere capacità dell’uomo e delle comunità di avere le necessarie risorse biologiche, sociali ed economiche per adattarsi.
5. In Italia c’è un reale spazio per questi temi?
Si, anche se dobbiamo ammettere che un grande lavoro sia di ricerca che di comunicazione è stato fatto, in questa direzione, soprattutto da biologi, botanici, fisici e climatologi. La collaborazione transdisciplinare, a questo punto, è d’obbligo per gli architetti.
6. In quali progetti è impegnato oggi il suo studio?
Tra i progetti più recenti, la rigenerazione dell’area industriale della Baltera, che comprende il polo fieristico e il nuovo palasport di Riva del Garda, in Trentino-Alto Adige, e il nuovo ospedale della Fondazione Stella Maris a Pisa, che è l’unica realtà sanitaria italiana dedicata alle cure neuropsichiatriche per l’infanzia e l’adolescenza. La particolare configurazione geometrica dell’edificio e le facciate trasparenti consentiranno al parco, che comprenderà anche giardini sensoriali, orti didattici, frutteti e aree gioco terapeutiche, di arrivare al cuore dell’edificio. Come proviamo a fare in ogni progetto, anche in questo caso l’estetica dell’edificio è affidata all’espressività dei dispositivi passivi e attivi e alle soluzioni progettuali mirate alla risposta antisismica e ad affrontare eventi climatici, anche estremi. Attraverso l’adozione di sistemi ibridi di produzione energetica termica e frigorifera di ultima generazione, la presenza di pannelli fotovoltaici in copertura in grado di produrre di 161.000 kWh/anno, nei sistemi automatizzati della luminosità naturale e artificiale.
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