Svizzera, Romania, Austria, Brasile, Israele, Belgio
I (nostri) migliori padiglioni nazionali si trovano ai Giardini (quindi, per chi ha poco tempo, il consiglio è di concentrarsi lì, mostra principale a parte) e sono per certi versi sorprendenti, uscendo – almeno un po’ – dal perimetro consolidato della nobiltà dell’architettura contemporanea.
Svizzera
Vincitrice uscente dell’edizione 2018, la Svizzera si conferma al top con “Oræ – Experiences on the Border”, che racconta vite e territori lungo i (molti) confini elvetici, enclave europea/extra-europea. Lo fa con un’installazione visuale coinvolgente, che unisce grandi plastici – costruiti in collaborazione con gli abitanti di quei luoghi – a video di interviste. Spazi ibridi e molteplici, nel periodo di chiusure dovute alle pandemie i confini sono tornati ad essere luoghi impermeabili, e per questo accumulatori di paradossi, laboratori di quei fenomeni sociali verso cui tende questa edizione biennalesca. Il contrasto tra le linee virtuali dei confini politici e le linee della natura è l’aspetto su cui i curatori hanno lavorato con maggiore intensità. Così come sulla capacità dell’uomo di andare “al di là” di questi stessi limiti, come da poetica citazione dell’altalena appesa all’albero nel piccolo cortile: “a poco a poco, le relazioni sostituiscono le misure e i riferimenti mutano. Sfumano le certezze e attecchiscono memorie furtive. Un’altra mappa appare. Sentimenti e luoghi, spesso ordinari, iniziano a riecheggiare insieme, un nuovo territorio diventa possibile”.
Romania
Parla di confini già nel titolo (“Fading Borders”) anche il padiglione della Romania, fortemente orientato verso una dimensione di ricerca attorno alla domanda “In che modo la migrazione influenzerà l’architettura e la città?”. Integra strumenti diversi: foto (belle ma in un allestimento non particolarmente ricercato), video, progetti urbanistici e architettonici. E dati, tanti dati, a raccontare due fenomeni che colpiscono il paese: dal 2007 (quando la Romania entra in UE) 3,4 milioni di persone sono emigrate (sezione Away), lasciando in dote città e campagne che si spopolano (indagate in Shrinking Cities). Piace e convince il tentativo di costruire una via d’uscita, una dimensione al futuro, una modalità per interpretare gli inevitabili riequilibri dovuti ai flussi migratori e le varie forme del declino come occasione per disegnare paesaggi alternativi e luoghi migliori per la convivenza.
Austria
Poco distante, il padiglione Austria sposta l’attenzione sul digitale come forma di unione tra presente e futuro. “Platform Austria” non è una proposta semplice, come spesso succede quando gli architetti si mettono a parlare di altri “mondi”. Ma la sfida pare vinta perché la declinazione rimanda costantemente alla dimensione spaziale di reti e network. Ovvero come le piattaforme modificano le nostre vite, ma anche come modificano i nostri luoghi. Non solo sociologia insomma (con tutto il corollario di tanto intenso quanto retorico lavoro collettivo di raccolta di posizioni: da Saskia Sassen in giù, per intenderci) ma anche disegno, con tanti grafici che descrivono cosa sono le reti in termini di forme e che accompagnano il visitatore – un po’ sballottato da immagini, suoni, interviste – nelle due ali in cui si articola l’esposizione. Il cortile all’aperto arriva come un sospiro di sollievo, un ritrovare quella forma di architettura “che vorremmo plasmasse il nostro futuro”. Non così banale da dire oggi, con vite in cui il digitale sostituisce, spesso drammaticamente, la stessa presenza fisica.
Brasile
Quell’architettura “vera” che accoglie i visitatori proprio al di là del ponte sul Rio dei Giardini, nel piccolo padiglione del Brasile. Il titolo “Utopias of common life” è forse un po’ fuorviante. Di utopico c’è poco, c’è tanta architettura, costruita (era forse un’architettura utopica?), restituita con un effetto scenografico di grande impatto, grazie ai grandi schermi e al nero delle pareti. Le sezioni sono due. Past Futures illustra alcuni progetti realizzati in quella Modernità “in cui si credeva ancora che il Brasile fosse il paese del futuro e tutto doveva essere ancora costruito”. Periodo che ha partorito – tra gli altri – il complesso residenziale Pedregulho (1947) a Rio de Janeiro e la stazione centrale degli autobus di Brasilia (1957), entrambi messi in mostra con allestimenti fotografici. Present Futures invece ha la forma di due film, prodotti per l’occasione, che – partendo dai luoghi contraddittori delle metropoli brasiliane contemporanee – stimola a riflessioni su forme innovative di coesistenza, fatta di rapporti ritrovati con la natura, di recupero di infrastrutture, di equilibri centro-periferia. Visione utopiche o, come raccontano esplicitamente i curatori citando Lina Bo Bardi (figura nient’affatto banale per questa edizione di Biennale), “invito alla riflessione sulla potenza dell’immaginazione e della poesia per creare altri mondi possibili”?
Israele
Altrettanto piccolo, ma decisamente prezioso, è anche il padiglione Israele, sull’altra sponda del canale. Quasi nascosto dalla sagoma statunitense (e dalla sua scultura parassita in legno), ha un taglio decisamente originale. I cambiamenti di un territorio che si estende dal Giordano al Mediterraneo, così carico di storia, tensioni e conflitti – ancora attualissimi – sono indagati attraverso il “lavorìo” degli animali, allevati e selvatici, che qui hanno abitato e abitano, trasformandone le forme, direttamente o attraverso l’intervento dell’uomo. “Land.Milk.Honey. Animal stories in imagined landscapes” è un’analisi zoocentrica, come ci spiega una delle curatrici, Rachel Gottesman, “come specchio per aprire un processo inclusivo, con l’architettura chiamata ad occuparsi di molte questioni, compresa quella politica”. La ricerca, anche storica, condensato nelle tre sale, è intensa e rivela una serie di storie inaspettate e sorprendenti. Elegantissima l’esposizione, con dettagli di alta poeticità (come la riproduzione del rumore degli stagni) ma che sfocia anche nel macabro con il bestiario: un grande mobile in alluminio, diviso in loculi contenente appunto i resti di questi animali, protagonisti del racconto.
Belgio
Parla invece di città e di architettura (tanta, finalmente!) il padiglione Belgio. Collocato fisicamente tra 2 mostri sacri come Olanda e Spagna, fa meglio di loro allestendo una sorprendente scenografia urbana, composta da 50 modelli di edifici, tutti in scala 1:50 e colorati con tinte pastello, reali perché esistenti nelle Fiandre e a Bruxelles, ma liberamente ricomposti a costruire una geografia totalmente inventata. “Composite Presence” suggestiona come capriccio trdimensionale che scompone e ricompone il paesaggio urbano – con architetture nuove, antiche, completamente ristrutturate – stimolando così una riflessione sul ruolo dell’edificio come fattore dell’architettura urbana, elemento obbligato di quella convivenza futura possibile a cui guarda la Biennale. Un’esperienza di impatto a giudicare dai molti commenti positivi che si sono sentiti in questi giorni. Pur erranti nella ricerca di riferimenti possibili: da Canaletto (e chi altrimenti?) ad Aldo Rossi, dalle Città Fantastiche di Paolo Ventura ai plastici di Porta a Porta. Anche questa è condivisione…
Considerato che per noi questi sono i padiglioni migliori, ecco le indicazioni per approfondire i temi raccontati, oltre che visitarli in Biennale:
Svizzera. I curatori sono tutti ginevrini, 2 architetti, Mounir Ayoub e Vanessa Lacaille, il cineasta Fabrice Aragno e l’artista-scultore Pierre Szczepski. Informazioni e alcuni spezzoni dei video su www.biennials.ch
Romania. Il programma di ricerca esposto in Biennale è brevemente illustrato nel sito www.fadingborders.eu. La sezione Away è curata dai giornalisti di Teleleu Elena Stancu e Cosmin Bumbuț. Quella Shrinking Cities dall’associazione Ideilagram. Il Padiglione Romania ha anche una sede fuori-Biennale, all’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica, a Palazzo Correr, con un’esposizione curata dalla rivista Mazzocchioo
Austria. www.platform-austria.org. I curatori (Peter Mörtenböck e Helge Mooshammer) sono fondatori e direttori del Centro Culturale www.global-architecture.org.
Brasile. Il team curatoriale è composto da Alexandre Brasil, André Luiz Prado, Bruno Santa Cecilia, Carlos Alberto Maciel, Henrique Penha e Paula Zasnicoff.
Israele. I curatori sono Dan Hasson, Iddo Ginat, Rachel Gottesman, Yonatan Cohen e Tamar Novick. Molto ben curato il catalogo dell’esposizione edito da Park Books: LAND. MILK. HONEY. Animal Stories in Imagined Landscapes, 348 pagine, 25 euro.
Belgio. I curatori sono Bovenbouw Architectuur, le opere esposte – da 45 diversi studi – sono frutto di una open call del Flanders Architecture Institute
Leggi la nostra classifica completa:
Come non perdersi tra i 60 padiglioni nazionali, la nostra classifica con il meglio e il peggio di Biennale#17
1. I padiglioni al top, da non perdere
2. Più o meno belli, comunque decisamente “sul pezzo”
3. Esperienze coinvolgenti, ma che c’azzeccano?
4. Alziamo le braccia, non li abbiamo capiti
5. Nulla di indimenticabile, vivevamo anche senza