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François ChaslinWritten by: Professione e Formazione

Il Pritzker a Lacaton e Vassal: elogio della frugalità

Il Pritzker a Lacaton e Vassal: elogio della frugalità
La coppia francese ha sviluppato una vera dottrina di rottura per l’architettura contemporanea, un appello a liberarsi dai dogmi e dalle ideologie comode, un invito al realismo. La riflessione che François Chaslin ha scritto per Arquitectura Viva in esclusiva per i nostri lettori

 

A volte abbiamo la sensazione di assistere a una svolta. Che la chiaroveggenza e l’inventiva di alcuni architetti, la loro perseveranza, la determinazione di rari committenti e certi cambiamenti nell’immaginario collettivo aprano prospettive completamente diverse, al di fuori del buon senso, inconcepibili fino a pochi anni fa. Soprattutto per l’edilizia residenziale. In Francia è stato il caso dell’Unité d’habitation di Marsiglia e dei suoi tre avatar e, allo stesso tempo dei lunghi edifici in linea e delle torri dei grandi complessi di edilizia sociale, qualunque cosa se ne possa pensare. O, più tardi, con la proliferazione dell’urbanistica e delle colline di case a schiera di Jean Renaudie a Ivry o Givors. Generazioni di architetti hanno portato avanti il loro esempio in nuove visioni, hanno costruito utopie, ma concrete. Gli abitanti li hanno seguiti, alcuni con il desiderio di una nuova vita, altri meno convinti. E poi la vita reale e le sue vicissitudini si sono stabilite in queste costruzioni. Si sono succedute famiglie, popolazioni assai diverse, un mondo colorato, cosmopolita, spesso riluttante. Altre preoccupazioni sono emerse nel corso degli anni, le politiche pubbliche hanno cambiato direzione e i vecchi impegni sono stati dimenticati. Si stava andando oltre.

I tempi sono frugali. Con Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal sta emergendo una nuova rottura. Compiono un lavoro paragonabile a quello che ha fatto Rem Koolhaas con “quella che chiamavamo la città” e poi con l’ordinario junkspace: un appello a liberarsi dai dogmi, dalle ideologie comode, mai messe in discussione e cieche alla realtà del mondo contemporaneo. È un invito al realismo.

Queste rivoluzioni sono completi cambiamenti di paradigma. Influenzano la nostra concezione della vita quotidiana, dei costumi, delle abitudini familiari, del comfort e del buon gusto. Quelle che ci facciamo dei materiali, della loro presunta nobiltà o volgarità, della loro realizzazione ed estetica. Sono ciò che rappresentano le rotture epistemologiche descritte da Gaston Bachelard ne La formazione del pensiero scientifico. I pregiudizi, le nozioni comuni sono un “ostacolo”; un giorno svaniscono; compaiono nuove idee che poi s’impongono. Bachelard si chiedeva in termini di progresso perché la scienza progredisse (ne parlava come di un “insieme di errori rettificati”). L’architettura non sta progredendo. Si evolve attraverso salti abbastanza brutali, con una certa propensione all’amnesia, perfino alla negazione.

Anche se non hanno prodotto un testo canonico, accontentandosi di interviste sui giornali, Lacaton e Vassal hanno sviluppato una vera dottrina per l’architettura contemporanea. Una dottrina costruita gradualmente. Senza lirismo, senza letteratura, lontano dalle pose della celebrità. Lo hanno fatto con disinvoltura, con l’applicazione, la coerenza e il buon senso degli artigiani. E grazie alla natura esemplare delle loro creazioni caratterizzate da nuova bellezza, rigore grafico, luminosità, superfici a volte perlacee, vetri riflettenti, tende grigio argento, lamiere ondulate e lastre di policarbonato, e soprattutto volumi interni dall’atmosfera cristallina e leggera, messi notevolmente in valore dalla fotografia.

Sulla loro scia si è sviluppata una nuova corrente sulla scena architettonica francese, al punto da sembrare incarnare una sorta di scuola nazionale che unisse razionalismo, responsabilità etica e politica, attenzione alla questione sociale e frugalità. C’è il gruppo NP2F, i cui membri erano loro collaboratori, Christophe Hutin, responsabile del padiglione francese alla prossima Biennale di Venezia, lo studio Bruther (autori di una piccola torre trasparente dedicata all’innovazione sulla penisola di Caen e di una residenza nella Cité universitaire di Parigi) o Studio Muoto (due ex dipendenti di Dominique Perrault che hanno firmato un complesso sportivo e ristorazione nel campus di Saclay i cui volumi trasparenti sono sovrapposti con grande raffinatezza).

Offrire più spazio e più luce allo stesso costo. Non distruggere inutilmente, ma conservare tutto ciò che si può. Nutrirsi della bellezza o della semplice esistenza di ciò che c’è già. Dare fiducia alle persone per arredarsi la propria casa e per decorarla come preferiscono, per installare il loro intimo “disordine”, se lo desiderano. Il loro mondo, il loro mucchio di segreti, la loro particolare poesia e i loro dolori. Dare piena libertà agli abitanti e non impedire loro nulla. Far sì che lo spazio progettato sia il meno determinato possibile. Che non sia funzionale ma flessibile. Siamo lontani dall’autoritarismo degli architetti moderni, di Le Corbusier che protestava perché delle “povere donne” nella Cité du réfuge dell’Esercito della salvezza “fingevano” di soffocare dietro le sue facciate ermetiche, che chiedeva al Partito comunista di insegnare “al suo popolo” la “disciplina necessaria” e che si lamentava con il ministro André Malraux di una “specie di complotto escogitato” dagli abitanti della città radiosa di Marsiglia contro le sue innovazioni. Lacaton e Vassal visitano le case che hanno costruito o ristrutturato. Vedono come le persone ci vivono, come le organizzano, come se le aggiustano, come se ne appropriano. E tornano apparentemente felici. La diversità di tutte queste vite anima le facciate più monotone con infinite variazioni.

Ciò che colpisce nell’atteggiamento di questi due architetti è la determinazione che hanno a seguire un percorso che hanno intrapreso sin dall’inizio del loro lavoro, dalla famosa casa Latapie a Floirac, progettata trent’anni fa. Nel suo Essai del 1753, l’abate Marc-Antoine Laugier ha fatto risalire l’architettura alla “piccola capanna rustica” fatta di “pochi rami abbattuti nella foresta“: una “specie di tetto coperto di foglie fitte in modo che né il sole né la pioggia possa penetrarvi; ed ecco l’uomo alloggiato“. Le Corbusier ha fatto risalire il suo lavoro al progetto della Maison DomIno del 1914, una semplice intelaiatura di pilastri e solette di cemento armato, “concezione pura e totale di un intero sistema costruttivo“, tecnica che gli permette di “manifestare un nuovo senso dell’estetica architettonica“. Lacaton e Vassal si riferiscono a una capanna di paglia che costruirono a Niamey nel 1984. È la loro casa di Adamo in Paradiso, la loro rustica cabane, e sarebbero senza dubbio d’accordo con l’affermazione di Laugier: “È avvicinandosi alla semplicità di questo primo modello che si evitano i difetti essenziali, che si colgono le vere perfezioni“.

 

Ci si è chiesti se la loro architettura, ispirata alle serre orticole, non potesse “avallare l’architettura a basso costo” e persino “contribuire alla sua generalizzazione“. Se l’ampliamento con la creazione di verande come nella riabilitazione della torre Bois-le-Prêtre e delle 530 unità abitative del Grand Parc de Bordeaux, o di spazi tampone come nella scuola di architettura di Nantes, non producesse altro che un aumento di ombra nella profondità dell’edificio. Ci si è chiesti quale reale utilizzo fosse la flessibilità e la neutralità funzionale di questi spazi a volte considerati indistinti, “privi di qualità” e troppo poco contrastati.

Potremmo preoccuparci di cosa rimarrà quando i loro materiali saranno invecchiati, quando leggerezza farà rima con fragilità o spazzatura. E soprattutto quando alcuni modelli della società contemporanea non saranno più utilizzati: il gusto del loft, l’estetica del grunge, dei pavimenti in asfalto nero, del magazzino e del negozio di bricolage oggi ampiamente accettati. E quando, per i loro abitanti o per gli utenti delle loro attrezzature, il piacere di essere stati pionieri di queste architetture di ascesi e quando questi telai in acciaio zincato assemblati con una chiave inglese regolabile avrà perso ogni significato. O il giorno in cui le difficoltà sociali li avranno sopraffatti.

Nelle loro case, nuove o ristrutturate che siano, l’obiettivo centrale è quello di viverle (e in particolare della libertà di vivere in un mondo cosmopolita), sia in mobili di design, piccolo-borghesi o nordafricani, nuovi o riciclati, in stanze spoglie o sovraffollate, con fiori, biciclette arrugginite o scatole d’archivio sul balcone della veranda. È bello vivere così. Per vivere liberamente. Quindi, vorremmo che la critica, la letteratura, la fotografia o il cinema documentario esplorassero per noi questi progetti. Un po’ come avevano fatto François Hers e Sophie Ristelhueber quarant’anni fa, quando fotografavano gli interni delle case popolari in Vallonia. Hers a colori, senza abitanti, in quadri schiacciati dal flash con, al di là della finestra, il paesaggio esterno che assomigliava ai cromos sui muri. Ristelhueber in bianco e nero in immagini da cui emanava un’impressione di reclusione, disordine e destini saldamente radicati.

Così, proprio come in un resoconto sociologico, visitando gli appartamenti a diverse ore, e anche in un giorno di pioggia, potremmo conoscere un po’ di più questo formidabile sforzo di andare oltre gli standard della rappresentatività, alle idee ready-made e alle normative. Uno sforzo che è stato appena coronato dal Pritzker Prize. E aggiungere un po’ di ombra e di chiaroscuro e sfumatura a tutta quella luce che ci promettono.

E per tornare a Le Corbusier in modo che il cerchio si chiuda, cito quanto scrisse Jean Paulhan al termine di un breve viaggio in Svizzera nell’aprile del 1946 con lui e Jean Dubuffet. Nel suo testo chiama Le Corbusier, Auxionnaz, e racconta quanto li stancasse con le sue teorie. “Un architetto”, scrive, “noto per costruire case allegre, attraversate dall’aria e dal sole“. Case “dove tutto ciò che manca per i miei gusti, ha detto, è una stanza piccola, buia e ragionevole“.

Immagine di copertina: Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal, photo courtesy Laurent Chalet

Autore

  • François Chaslin

    Nato nel 1948, architetto e critico, ha collaborato con "Le Monde", "Liberation", "Nouvel Observateur", ha diretto il dipartimento mostre dell'Istituto francese di architettura dal 1980 al 1987, ha diretto "L'Architecture d'Aujourd'hui" dal 1987 al 1994. Produttore di France Culture, dal programma Metropolitan dal 1999 al 2012, è anche autore di molti libri tra cui: André Bruyère ou la tendresse delle mura, con Ève Roy (Éditions du Patrimoine, 2016); Un Corbusier (ed. Du Seuil, 2015); Paris, taccuino periferico (Créaphis, 2011); Jean Nouvel, recensioni (In Folio, 2008); Fotografia e architettura, Charles Vandenhove e François Hers (Bonnefantenmuseum, Maastricht, 2007); Chaix e Morel, Les annose lumières (Ante Prima, 2006); L'ambasciata olandese a Berlino di Rem Koolhaas (Nai Uitverlag, 2004); Due conversazioni con Rem Koolhaas, eccetera (Sens e Tonka, 2001); Un odio monumentale, la distruzione delle città nell'ex Jugoslavia (Descartes et Cie, 1997); Il grande arco, con Virginie Picon-Lefebvre (Electa Moniteur, 1989); La Parigi di François Mitterrand (Gallimard Folio, 1985); Mario Botta, laboratorio di architettura, con Pier Luigi Nicolin (Electa Moniteur, 1982).

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Last modified: 29 Marzo 2021