La ricerca radicale di “buon cibo” ha prodotto una quantità di spunti applicabili a una ricerca altrettanto radicale di “buona casa”. Introduzione a una serie di pratiche a basso impatto ambientale
Non si riesce ormai a stare dietro al numero di etichette attribuite a un’architettura (anch’essa, a sua volta, da intendere in senso assai lato) che abbia scarso impatto negativo sull’ambiente, o addirittura, come va di moda affermare negli ultimi tempi, abbia un “impatto positivo”. In mezzo a tanto frastuono, forse non era necessaria un’ulteriore proposta. Epperò mi ci sono provato, partendo dalla considerazione che le riflessioni sull’agricoltura e sulla nutrizione ecologicamente orientate sembrano più radicate nella realtà rispetto a quelle sull’architettura, e che la loro teoria e pratica si sono sviluppate notevolmente negli ultimi decenni. La nuova gastronomia, per esempio, non si occupa solo della preparazione e del gusto del cibo, ma considera tutti i processi coinvolti nella produzione e nella lavorazione degli alimenti e l’impatto sociale e ambientale dell’agricoltura. Il tipo di agricoltura a cui mi riferisco non è quella biologica così come oggi normata, che possiamo considerare il minimo accettabile. Propongo una posizione più radicale, e l’assunzione di una visione più ampia: un’“agricoltura naturale” che comporta alta intensità di lavoro e produzione su piccola scala, secondo i principi dell’agroecologia di Miguel Altieri e della buona agricoltura secondo Wendell Berry.
Una casa buona come il cibo (buono)
La ricerca radicale di “buon cibo” ha prodotto una quantità di spunti applicabili a una ricerca altrettanto radicale di “buona casa”.
Per valutare se un cibo è buono non bastano i sensi: occorrono informazione, senso critico e visione ecologica. Il buon cibo nutre, anzi protegge la salute e addirittura guarisce; non avvelena chi lo mangia o l’ambiente; si relaziona in modo significativo con i cicli naturali, con la terra e con chi la coltiva; non può essere il prodotto dello sfruttamento del lavoro; e anche, sì, dà piacere ai sensi. Tuttavia, la maggior parte del cibo è oggi coltivata in condizioni che compromettono il suo valore nutrizionale, l’ambiente e la società. Simili considerazioni dovrebbero essere applicate anche al costruire e all’abitare, e (tra le altre cose) trovano particolare coerenza con la scelta di materiali da costruzione di origine vegetale: e qui, ancora di piú che in nel campo alimentare dove ormai esiste una certa moda per il “biologico”, occorre costruire competenza tra i progettisti e consapevolezza tra i consumatori.
Principi dell’architettura vegetariana
Ovviamente, l’espressione “architettura vegetariana” è metaforica, ma questo non è un buon motivo per essere vaghi. È abbastanza semplice definire una dieta vegetariana – e così dovrebbe essere la definizione di un edificio “vegetariano”. Tra i principi che propongo:
Lavorare insieme alla natura, anziché contro di essa. Riconoscere che la natura è complessa, indeterminata, varia, multifunzionale (e anche le creazioni umane dovrebbero essere tali). Questo significa anche fare il meno possibile. Ogni intervento umano altera la natura: ma è possibile riconoscere gradi – di solito legati alla quantità di energia impiegata – che vanno dall’accettazione rispettosa della natura all’arroganza di “migliorarla” o superarla.
Acquisire maggiore comprensione dei materiali naturali disponibili, per quanto pochi, e massimizzare i risultati ottenibili dalle loro proprietà, alterandoli il meno possibile. Utilizzare materiali da costruzione rinnovabili è un modo per ridurre le emissioni di anidride carbonica; i materiali di origine naturale inoltre (purché privi di sostanze chimiche tossiche aggiunte) non sono pericolosi per gli abitanti. Spesso questi materiali non sono coperti dalle norme né dai software di valutazione ambientale. E quando lo sono, le loro caratteristiche sono sottovalutate o solo parzialmente riconosciute; non funzionano in modo prevedibile come i materiali industriali.
Massimizzare l’uso di materiali e prodotti locali. Le importazioni possono ridursi ai soli componenti ad alta tecnologia. Privilegiare tecnologie costruttive gestibili a livello locale permette di preservare competenze e imprese locali. Inoltre, indipendentemente dalla fonte energetica, si dovrebbe massimizzare l’impiego di prodotti da costruzione a bassa energia inglobata e minimizzare l’uso di prodotti ad alta intensità energetica, quali quelli metallici e petrolchimici, che restano però attualmente inevitabili. Il concetto di Peter Harper “low-carbon materials + industrial vitamins” esprime una posizione realistica: progetti schiettamente moderni possono essere costruiti con una preponderanza di materiali naturali poco trasformati, il cui impatto ambientale è molto limitato, più alcuni prodotti industriali avanzati (ad es. impianti, finestre) che permettono prestazioni altrimenti impossibili.
Nutrirsi di cibo vero, senza additivi, miglioratori, conservanti, coloranti, dolcificanti, emulsionanti, stabilizzatori. Conservanti e altre sostanze chimiche nei materiali da costruzione incoraggiano i residenti a comportarsi in modo irresponsabile e gli architetti a fare cattive scelte progettuali. L’aggiunta di sostanze tossiche (incluse molte colle e vernici) rende i materiali di origine vegetale rifiuti speciali, che non possono nemmeno essere bruciati alla fine della loro vita utile. Al contrario, attenta selezione e trasformazione delle materie prime, progettazione e manutenzione competenti e frequente sostituzione di parti possono produrre edifici assai durevoli. Le etichette dei prodotti alimentari devono indicare gli ingredienti, ma non è obbligatorio dichiarare cosa contengono i prodotti per l’edilizia, nonostante i rischi che essi possono comportare, ad esempio in termini di salubrità dell’aria indoor.
Quanto qui richiamato descrive il modo in cui l’umanità ha vissuto fino a poco tempo fa. Ma oggi questi principi possono essere intesi solo come valori a cui tendere, non come requisiti.
Le verifiche sul campo
Dopo questo primo testo introduttivo, nelle prossime puntate di questa rubrica presenteremo esempi almeno in parte coerenti con il concetto di “architettura vegetariana”. Si tratta di edifici costruiti, o riqualificati, negli ultimi anni, ma mai appena terminati, perché una valutazione positiva del loro comportamento nella fase di vita utile è parte integrante del metodo adottato. Per evitare di fare un esercizio retorico, di ciascun caso studio saranno indicati anche i principali indicatori d’impatto ambientale.
Architettura vegetariana: il libro
L’autore di questo articolo è anche autore di Vegetarian Architecture. Case studies on building and nature (Jovis, Berlino 2020, pp.240). Che cos’è la “buona” architettura? Per rispondere a questa domanda occorre prendere in considerazione un’ampia gamma di criteri, proprio come la ricerca radicale del “buon” cibo, che negli ultimi decenni si è allargata dalla soddisfazione gastronomica alla produzione delle materie prime in modo sostenibile ed etico, e alla salubrità della dieta. Il libro presenta alcuni esempi di edifici basati su tecniche costruttive semplici, buona qualità esecutiva e un’attenta scelta di materiali locali e naturali, alcuni dei quali inscritti in iniziative di sviluppo locale che oltre alla qualità edilizia mettono al centro la riqualificazione del paesaggio e la rivitalizzazione socioeconomica. La selezione dei casi studio è ampia e non convenzionale: abbraccia l’Europa e il Giappone, e privilegia autori meno noti, opere poco appariscenti, e località marginali dove hanno potuto svilupparsi atteggiamenti radicalmente nuovi.
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abitare , compatibilità ambientale , La casa vegetariana , tecnologia
Last modified: 9 Luglio 2021