Futuri che non esistono ancora, creazione di aziende e soluzioni “a tempo”, team crossdisciplinari, passaggio da un’intelligenza ingegneristica ad un’intelligenza etica: le sfide che ci attendono secondo la fondatrice del Copenhagen Institute of Interaction Design
Architetta Maschi, da Ivrea a Copenaghen, la sua carriera si è sviluppata lungo un asse europeo nord-sud, con il primo quasi sempre a beneficiare delle risorse talentuose del secondo. A suo avviso, esiste una cultura del design europea? E soprattutto, l’Europa creativa viaggia a due velocità?
Non è una questione di doppia velocità. Possiamo riscontrare differenze oggettive in merito agli investimenti nel design, sia nel pubblico che nel privato, come strumento per migliorare la qualità della vita delle persone. È una questione di priorità (condivisa anche in altri settori come l’educazione, la medicina, ecc.), di divario in termini d’investimenti come l’assunzione di designer in grado di mettere in atto tutte le capacità di approccio strategico. L’Europa è bella per la molteplicità dei suoi linguaggi, la multiculturalità, elementi che si riflettono anche nel mondo del design. L’Europa è un luogo dove l’evoluzione del design è stata ricca perché ha vissuto il passaggio graduale dall’artigianato all’industria. Alla fine del secolo scorso si è scoperto che il design ha a che fare con il business, da strumento di creazione a strumento di strategie, valore per le imprese. È un approccio tipicamente europeo, da Braun a Philips ad esempio. In quest’ultimo periodo, infine, il design si sta combinando con la scienza, soprattutto con i dati. Il materiale digitale crea una nuova fase per il design. Così come avremo sempre più relazioni con la biologia, materiali che si riproducono, autorigeneranti. L’Europa è un catalizzatore di tutte queste fasi, cosa che non è accaduta allo stesso modo in altri continenti che hanno scale più vaste; in Europa, rispetto ad altri Paesi, c’è ancora una differenza culturale che da significato.
In un’intervista del 2013 lei affermava che «a Copenaghen rispondiamo alle esigenze della civiltà occidentale avanzata e ricca». A distanza di più di 5 anni, l’Europa è per lei ancora una civiltà avanzata e ricca?
Dipende da che cosa intendiamo per “avanzata e ricca”. Sicuramente nell’arco degli ultimi cinque anni questa civiltà avanzata e ricca ha creato molte disparità, al punto che oggi ci s’interroga su cosa design e tecnologie possono fare per generare più democrazia. Questa evoluzione ha creato nuovi divari, ma anche opportunità per i designer di occuparsi di social o digital divide; non lavorare quindi solo per digitalizzare un servizio, ma individuare soluzioni di design che possano aiutare lo sviluppo di piattaforme per economie e culture diverse, in una società ancora più complessa e complicata.
Secondo lei, avrà ancora un senso progettare l’interazione tra uomo e macchina se avremo sempre più macchine e meno uomini a svolgere i lavori del futuro? Teme un’iper-pervasività della robotica?
Ha sempre più senso che l’essere umano sia presente nel progettare le interazioni tra le persone e tra persone e macchine; la presenza di un essere umano sarà sempre fondamentale. Il design si vive dentro la cultura all’interno della quale crea valore. A meno che non avremo macchine in grado di creare cultura. Stiamo passando da un’intelligenza ingegneristica (come fare le cose) ad un’intelligenza etica (quali valori e principi adottare per prendere le decisioni). Anche se le macchine sono già al punto di gestire soluzioni, dovranno comunque avere degli input culturali entro i quali operare. Il design dovrà possedere una competenza che si carica di una grandissima responsabilità, ma allo stesso tempo si tratta di una delle opportunità di maggior rilievo in questo preciso periodo storico: prototipare scenari futuri possibili, futuri che non esistono ancora, attività super eccitante che in pochi possono gestire e realizzare. Quanto alla robotica, ricordo che la maggior parte delle macchine di Leonardo sono state concepite per situazioni in cui l’uomo faceva fatica. La robotica sostituirà ciò che è fatica per l’uomo.
Se dovesse elencare tre elementi chiave che ritiene lacunosi, sfocati o del tutto assenti nella formazione attuale dei designer, a quali penserebbe?
Preferirei partire da che cosa è per me importante: 1) istruzione basata sul learning by doing, impegnare i designer sui casi concreti; 2) i designer nascono per essere membri di team crossdisciplinari, che parlano diverse lingue e che usano la prototipazione come strumento di linguaggio comune (simultaneamente e non a compartimenti stagni); 3) la più complessa, cambiare il punto di vista, soluzioni molto più resilienti che paradossalmente potrebbero distruggersi, con un ciclo di vita molto diverso; il designer come persona che si adegua all’interno di questi cambiamenti. Faccio un esempio riguardante la responsabilità di adattarci al cambiamento climatico. È inutile pensare ad aziende che andranno avanti per sempre (senza che la loro scomparsa venga percepita come un fallimento). Di recente siamo stati chiamati a strutturare un business model nello Sri Lanka, immaginando che entro sei mesi la nostra impresa potrebbe subire un’alluvione. In una logica di open innovation, dove tutti contribuiscono a cambiare le cose progettate, si è anche ipotizzato che avrebbe più senso spostare l’altezza di una presa elettrica da 20 a 300 cm da terra. Comunque le lacune sono, almeno in parte, giustificabili. Nella formazione, il design sta gradualmente passando dall’intervenire alla fine dei processi d’innovazione (responsabilità importante ma geograficamente, economicamente e forse anche moralmente limitata), all’essere una disciplina che abbraccia l’intero approccio strategico e digitale dei processi d’innovazione. Si è quindi fortemente modificato il ruolo, con una tale velocità che ritengo difficile una rapida trasformazione delle offerte didattiche o un radicale aggiornamento dei curricula.
L’unità per “Foresight, Modelling, Behavioural Insights and Design for Policy”, parte del DG Joint Research Center della Commissione europea è alla ricerca di “Policy Analyst” nel design. Che cosa le fa pensare questo vivo (seppur lento) interesse delle istituzioni pubbliche verso i metodi, le tecniche e l’apertura mentale del designer?
Mi ricollego alla prima e alla terza risposta. È un chiaro segnale di come, anche a livello istituzionale, s’intenda attingere dalla capacità creativa dei designer per migliorare le decisioni di oggi e per pianificare i futuri desiderati.
Immagine di copertina: secondo Simona Maschi i designer nascono per essere membri di team crossdisciplinari e non multidisciplinari (© Ubaldo Spina 2019)
Chi è Simona Maschi
Cofondatrice e CEO del Copenhagen Institute of Interaction Design. Laureata in Architettura al Politecnico di Milano, dove ha anche conseguito il dottorato in Industrial Design and Multimedia Communication. Al suo attivo oltre 20 anni di esperienza nell’insegnamento presso varie istituzioni in Danimarca (ITU, DTU, Danimarca’s Design School, 180 Academy) e a livello internazionale: visiting scholar presso l’Institute of Design dell’Illinois Institute of Technology di Chicago; docente e ricercatrice presso l’Interaction Design Institute di Ivrea; membro della giuria per gli IXDA Interaction Awards e parte di un comitato di esperti che implementa nuove strategie di progettazione presso l’Università di Macao (Cina); professore associato onorario presso la Kolding School of Design e nel consiglio di amministrazione di ASHOKA in Danimarca. Si occupa di progettazione di servizi e scenari, cercando di sviluppare una cultura dell’innovazione che connetta industria, mondo accademico e imprenditorialità. Alcuni suoi progetti recenti hanno riguardato i trasporti pubblici e privati, la salute e il benessere, l’edilizia abitativa sostenibile e le smart cities.
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interaction design , professione designer
Last modified: 4 Dicembre 2019