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Michele RodaWritten by: Progetti

Ri_visitati. Dieci anni di successo per il Museo dell’Acropoli

Ri_visitati. Dieci anni di successo per il Museo dell’Acropoli

In gran salute, il Museo dell’Acropoli di Atene festeggia l’anniversario con l’ampliamento del percorso espositivo, che permette di vedere da vicino i resti archeologici del quartiere di Makriyannis

 

Il passato

Esattamente 10 anni fa – era l’estate del 2009 – veniva inaugurato, ai piedi della collina più importante della cultura classica, il Museo dell’Acropoli: un edificio la cui vicenda è tanto complessa quanto le forme architettoniche, vagamente decostruttiviste, disegnate da Bernard Tschumi insieme a Michalis Photiadis. È il concretizzarsi di un’ambizione, tutta greca, collegata all’annosa e legittima rivendicazione dei marmi del Partenone, sottratti da lord Elgin ad inizio Ottocento. Il progetto si concretizza al termine di un (terzo) concorso, bandito nel 2001 e vinto appunto da uno Tschumi all’apice della carriera. L’edificio – imponente (ampio 14.000 mq, dieci volte il vecchio museo) – sorge nel cuore del quartiere di Makriyannis, alle spalle del volume di un ottocentesco ospedale militare. Le prime pendici dell’Acropoli sono a pochi metri; il Partenone – in linea d’aria – a mezzo chilometro. Tschumi dispone una grande piastra in cemento a galleggiare sopra i resti archeologici che gli scavi svelano nel sottosuolo. Questo basamento è il primo dei tre livelli, didascalicamente composti in sequenza: le gallerie espositive principali (con gli accessi e la muscolosa pensilina proiettata verso l’Acropoli) nella sequenza centrale, la sala del Partenone nel volume di coronamento, disassato a riprendere, sia come orientamento che come dimensioni, proprio la pianta del capolavoro di Fidia. Il tre sembra essere il numero magico di questo progetto. Tre i materiali usati: vetro, cemento e marmo. Tre gli elementi che i progettisti definiscono come identitari: la successione delle parti in sezione, il ruolo della luce naturale che filtra abbondantemente dalle ampie vetrate e i percorsi interni che incentivano un movimento continuo tra i diversi ambienti. È, da subito, un progetto che divide: da un lato chi elogia la grande macchina per esposizioni e le sue stupefacenti trasparenze verso l’Acropoli (riferimento fisico e virtuale continuamente, quasi ossessivamente, presente). Sul fronte opposto le critiche si concentrano su un linguaggio architettonico omologante, adatto secondo alcuni più ad un centro commerciale o ad un aeroporto che ad uno spazio di cultura, come tradizionalmente inteso.

 

Il presente

C’è del vero in entrambe le posizioni, e il primo decennio di vita lo dimostra in maniera chiara. Quello dell’Acropoli è un museo straordinariamente efficiente: dall’apertura è stato visitato da 15 milioni di persone; in alcune giornate si superano abbondantemente le 10.000 presenze. Nonostante il grande afflusso – e le code alla biglietteria, specialmente nel periodo estivo – visitarlo è un’esperienza sorprendentemente positiva: organizzazione, pulizia, precisione. Quello che ti aspetti da un museo svizzero (come l’architetto, in effetti), non greco. I percorsi ti accompagnano in una progressiva scoperta delle migliaia di reperti (in tutto 4.000, recitano opuscoli e guide): una salita che allude a quella che si percorre per raggiungere la cima dell’Acropoli, scandita da un’articolata sequenza di statue e fregi. Molti di questi sono esposti – e in questo sta probabilmente una delle più grandi intuizioni – in un’atmosfera sospesa e decontestualizzata. Siamo lontani anni luce dal modello – archetipico, verrebbe da dire – del polveroso museo archeologico, che anche ad Atene vanta ancora oggi esempi paradigmatici. Qui il reperto assume una sua presenza scenica autonoma, grazie alle scelte allestitive e alla luce che inonda gli spazi interni. La sala del Partenone è il climax di questa ricerca, con gli sguardi che corrono, in un gioco quasi straniante di corrispondenze, dagli originali e dalle riproduzioni dei fregi al luogo fisico – oltre le vetrate – che li ha ospitati. È paradossalmente proprio l’egregio invecchiare della struttura a rafforzare, sul fronte opposto, le critiche all’edificio, nate fin dalla sua apertura. Non c’è patina della storia, non c’è ostentata ricerca di una continuità con il luogo, non c’è alcun tentativo di mimetismo. Il Museo dell’Acropoli era, è e sarà un corpo estraneo, alieno e disturbante. Che delega la qualità compositiva e costruttiva ad una logica tutta interna, e riuscita, di scelte tecnologiche e di accostamenti materici. Potrebbe rinunciare al sito, per certi versi. Potrebbe benissimo collocarsi altrove. E in questo senso siamo lontanissimi dalla lezione che, a pochi metri di distanza, ci ha offerto Dimitris Pikionis quando fu chiamato ad intervenire sui percorsi dell’Acropoli: un lavoro nel luogo, sul luogo, con il luogo e i suoi elementi costitutivi.

 

Il futuro

Il futuro è iniziato a fine giugno 2019: la celebrazione del decimo compleanno è coincisa con l’apertura di un percorso che enfatizza una delle dimensioni del progetto originale. Il volume del museo si colloca infatti in un’area che ha rivelato notevolissimi valori archeologici, con i resti di una porzione di città abitata ininterrottamente per circa cinquemila anni, dal quarto millennio avanti Cristo fino all’epoca bizantina. Il progetto Tschumi già si era confrontato – grazie anche alla collaborazione di un team di archeologi – con questa presenza, tanto ingombrante quanto suggestiva. I circa cento pilastri in cemento armato che sostengono strutturalmente l’edificio erano stati collocati in modo da non impattare eccessivamente su questo suolo denso di significati. I reperti, studiati e catalogati, erano poi stati in gran parte ricoperti con uno strato di ghiaia: di fatto non accessibili né visitabili, pur avendo il primo piano dell’edificio lasciato una distanza critica rispetto al suolo. Oggi quel vuoto viene riempito con una sequenza di passerelle metalliche (abbastanza banali nelle scelte materiche e di dettaglio) che permettono di avvicinarsi ai frammenti di muro, ai tratti di strade, alle piccole e grandi infrastrutture del quartiere di Makriyannis. Quello che era soltanto lo sfondo per affascinanti e contrastanti vedute dall’alto (con la mole dell’edificio moderno che sembra galleggiare su un pattern disordinato di ruderi) viene ritrovato come spazio da esplorare. Un po’ claustrofobico, a dire il vero, schiacciato appunto dalla solettona di una struttura imponente e dalla presenza dei massicci pilastri tondi in cemento. Ma riscattato dai giochi di trasparenza e di luce che, anche nel piano interrato, riescono a restituire una spazialità non banale. È il vedere da vicino a caratterizzare questo nuovo percorso espositivo che – tornando alla sezione originaria – pare voler chiudere il cerchio: dalla terra al cielo, in una sequenza non cronologica ma altamente complessa.

Il Museo dell’Acropoli, a dieci anni dall’apertura, sembra infatti ancora indicare un punto di vista non banale dell’oggetto archeologico: non elemento da osservare da distanza critica, ma da scoprire (o ri-scoprire) in un contesto modificato, e con lenti multiformi.

Autore

  • Michele Roda

    Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale

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Last modified: 27 Agosto 2019