L’inclusione di “Ivrea città industriale del XX secolo” nel Patrimonio mondiale Unesco è un’opportunità per superare i tanti nodi legati alla gestione dell’eredità olivettiana. La riflessione di un protagonista dell’azione di tutela
IVREA. Da domenica 1 luglio 2018 “Ivrea città industriale del XX secolo” è ufficialmente il 54° sito italiano inserito nella Lista dei beni Patrimonio mondiale dell’Unesco. È la seconda volta – dopo Crespi d’Adda – che il riconoscimento è assegnato ad un complesso urbano italiano del XX secolo. Questa volta però ad essere sancita non è solo la qualità dei manufatti architettonici ma l’importanza della visione industriale e sociale che sta dietro alla loro edificazione e che ha supportato la realizzazione dell’originale ipotesi urbanistica che li ha tenuti insieme, pur nella loro diversità, in un processo durato quasi un secolo che – per la sua parte più significativa – è indissolubilmente legato alla visione sociale di Adriano Olivetti.
Non c’è dubbio che si tratti di uno straordinario risultato per Ivrea, di cui la città può andare orgogliosa e che – se ben utilizzato – potrebbe essere uno strumento per costruire un pezzo del percorso di uscita dall’impasse economica e sociale seguita alla fine della Olivetti e per elaborare definitivamente il lutto per la morte della “fabbrica-mamma” attraverso il recupero degli aspetti fondanti di un passato recente ormai oggetto solamente di nostalgiche e retoriche rievocazioni.
Eppure il suono di campane a distesa e salve di cannone non ha accolto il ritorno dell’affollata delegazione involatasi a Manama, in Bahrain, per ricevere l’ambito riconoscimento; né folle festanti hanno invaso Piazza di Città per esprimere il proprio giubilo o sono state invitate a farlo da un Comitato ansioso di condividere con la popolazione il successo. I giornali nazionali si sono rimbalzati per qualche giorno la stessa velina con la breve dichiarazione del ministro dei Beni culturali e persino il giornale locale, dopo due brevi articoli sul tema, è tornato ratto ad occuparsi d’incidenti stradali, necrologi e feste di paese per salvaguardare la propria tiratura, mentre solo una sparuta folla di curiosi ha assistito all’intervista in diretta del sindaco sul canale Rai regionale.
Quello che potrebbe essere scambiato per manifestazione di sabaudo understatement è in realtà il frutto avvelenato di una disastrosa strategia di comunicazione che ha accompagnato – in logica coerenza – un processo opaco e pochissimo interessato a sottoporre a verifica pubblica la propria attività. Al di là dei proclami ufficiali e di qualche azione demagogica, il Comitato organizzatore non ha infatti mai considerato come interlocutore privilegiato la cittadinanza, proprietaria e utilizzatrice degli edifici olivettiani oltre che naturale erede della tradizione culturale che s’intende onorare e promuovere.
In assenza di una comunicazione di ciò che avveniva nel salotto del Comitato, l’entusiasmo per la candidatura, peraltro mai eccessivo, è andato scemando finché la posizione contraria alla candidatura è stata addirittura intercettata da forze politiche oggi al governo della città. È sfumata così l’occasione di aggregare attorno ai temi della candidatura i veri protagonisti della fase di attuazione del programma di gestione, che oggi guardano all’Unesco solo come ad una possibile quanto improbabile fonte di finanziamenti per la ristrutturazione degli edifici.
Eppure la candidatura non decollava da un terreno vergine, ma costituiva il coronamento di un lungo percorso di riconoscimento e salvaguardia della città olivettiana, avviato a metà anni ’90, che forniva solide basi documentarie e strumentali. Nel 2008, quando il processo ha timidamente iniziato il suo iter, Ivrea aveva infatti già messo a punto una strategia di salvaguardia del patrimonio architettonico moderno unica in Italia, a cui altre realtà guardavano come ad un modello. La catalogazione degli oltre 300 edifici del patrimonio olivettiano era completa (2000); era stato inaugurato il Museo a cielo aperto dell’architettura moderna (MaAM, 2001); la città si era dotata di una Normativa di salvaguardia che individua vari livelli d’intervento possibili su tutti gli edifici censiti (2002); il PRG coordinato da Giuseppe Campos Venuti aveva sancito l’importanza e l’organicità dei tessuti della città olivettiana assoggettandoli – primo caso in Italia – alla normativa specifica dei centri storici (2003); era stato aperto il Museo Tecnologicamente (2005) per offrire uno sguardo sul cuore della cultura industriale olivettiana, ovvero l’innovazione. Infine, un’intensa produzione di testi scientifici tra il 1999 e il 2006 aveva definito in modo chiaro ed inequivocabile i contorni della vicenda di Comunità, le fasi della concreta realizzazione della “Città dell’uomo” immaginata da Olivetti, la natura ed il valore delle sue architetture e ricostruito la logica del percorso di salvaguardia iniziato a metà anni ’90.
È grazie a questi risultati concreti se gli ispettori dell’Unesco si sono sentiti rassicurati nell’accreditare la candidatura di Ivrea, e se l’appoggio del Mibact è stato pronto e entusiasta, fin dai primi contatti informali attraverso la DARC nel 2005.
Ciò che è rimasto incompiuto della prima fase di lavoro riguarda invece l’organizzazione di una fruizione strutturata del patrimonio in termini turistici e la trasformazione del MaAM in un vero Urban center. Una lacuna su cui si sarebbe dovuta concentrare l’attività del Comitato per chiudere il cerchio, invece di attardarsi a ripercorrere sentieri già battuti (uno fra tutti, la catalogazione degli edifici, effettuata seminando errori ed omissioni tipici di un lavoro affrettato) e concentrarsi su quello che resta l’unico risultato concreto e originale della sua azione: l’attribuzione di vincoli monumentali ad alcuni edifici di massima importanza, su cui peraltro valeva già l’obbligo del “restauro conservativo” imposto dalla Normativa di salvaguardia comunale.
La decisione del World Heritage Committee mette ora la città di fronte alla necessità di passare dalle parole ai fatti, obbligando innanzi tutto a riprendere le fila di un’attenta e diffusa salvaguardia di un patrimonio che si estende ben oltre la core zone e la buffer zone prese in considerazione dall’Unesco. Proprio durante gli otto anni di gestazione della candidatura, una certa distrazione verso i destini degli edifici olivettiani ha fatto qualche vittima, di cui una illustre: l’edificio dei servizi sociali di Figini e Pollini, oggi ridotto a terreno di conquista di squatter. Non sarà però lo spettro di un vincolo di facciata ad evitare altri scempi; come quello perpetrato qualche anno fa ai danni degli interni della mensa di Gardella o a ridurre lo stillicidio di micidiali micro trasformazioni. Come per il recupero del quartiere di Canton Vesco e il restauro dell’officina Ico centrale, a garantire il governo di un patrimonio smisurato rispetto alla dimensione della città e alle capacità operative di un piccolo ufficio tecnico comunale dovrà essere invece la ripresa di procedure di conservazione attiva basate sulla responsabilizzazione degli abitanti.
Si tratterà di capire chi, nel complesso sistema di governance del sito ipotizzato dal Piano di gestione, dovrà occuparsi di questo delicato aspetto del problema e quando inizierà a farlo.
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Last modified: 11 Luglio 2018
[…] Ivrea e l’Unesco, un’investitura da non sperperare Il Giornale dell’Architettura […]