Visita a un manifesto (tardivo e a lungo negletto) della modernità che continua a interrogarci sul significato dell’architettura: né mero progetto, né semplice filosofia applicata
Il mio ideale è una certa freddezza. Un tempio che faccia da sfondo alle passioni senza interloquire
(Daniele Pisani, L’architettura è un gesto. Ludwig Wittgenstein architetto, 2011, p. 153)
Prologo
Otto Kapfinger era già arrivato e ci aspettava davanti al cancello. Noi eravamo un po’ in ritardo perché avevamo preferito muoverci a piedi (d’altronde è solo così che – sostengono in molti – si possono comprendere le città). Venivamo dall’Università ed eravamo passati dietro al Ring, dove i grandi edifici istituzionali davano le spalle all’architettura della “città nuova”, la Grossstadt wagneriana, i grandi blocchi della “Vienna rossa”. A un occhio poco attento la densità di quella parte di città nasconde ancora per un po’ la discontinuità del tessuto urbano, almeno fino a quando si arriva in prossimità della Kundmanngasse, in direzione del canale del Danubio, dove l’altezza delle case, la loro rarefazione e le loro forme Biedermeier, unite a una topografia più articolata (e in declivio) evocano una realtà diversa, di confine. Qui infatti, nel 1926, terminava la città. Qui, tra il 1926 e il 1929, viene costruito l’edificio che passerà alla storia come “casa Wittgenstein”, un fatto “di eccezionale rilievo culturale”.
A distanza di soli quattro decenni, verso la fine degli anni sessanta, non erano in molti a sapere che uno tra più grandi filosofi del Novecento si era cimentato con l’architettura, in uno dei momenti più difficili e intensi della propria vita e in uno dei momenti più esaltanti e drammatici della storia di Vienna. Un tempo nel quale l’Austria, già orfana del proprio impero, ricerca faticosamente l’identità perduta, dopo aver visto tramontare per sempre la propria egemonia culturale sull’Europa. “Una densità senza paragoni di eccezionali opere della letteratura, della pittura, dell’architettura e della musica” concentrata soprattutto a Vienna, la Wiener Moderne, contesto culturale allo stesso tempo ricchissimo e singolare, pieno di contraddizioni, segnato da un rapporto problematico con la modernità di cui la vicenda architettonica – “architettura senza avanguardia” la definirà Manfredo Tafuri – rappresenta l’elemento centrale, dove convivono episodi come casa Wittgenstein, forse l’ultima delle residenze aristocratiche della città, e le Höfe della Rote Wien, baluardi dell’avanguardia operaia, il “silenzio” della prima e la lingua “piena e semanticamente sovraccarica” delle seconde.
L’enormità dei fatti della storia che la casa attraversa – “Wittgenstein progetta dopo le avanguardie storiche, dopo l’epocale cesura della prima guerra mondiale, e dopo la dissoluzione dell’Impero” – e che ne segna inesorabilmente il destino di parziale oblio, sarà in realtà il motivo della sua successiva fortuna critica, anche e (forse) soprattutto in contesto italiano. Iniziata negli anni settanta con il celebre saggio di Francesco Amendolagine La casa di Wittgenstein (1975), e proseguita interrottamente fino a oggi, con l’importante libro di Daniele Pisani L’architettura è un gesto. Ludwig Wittgenstein architetto (2011).
Il passato
Nell’estate del 1926 Margaret Stonborough Wittgenstein coinvolge nella progettazione della propria casa a Vienna il fratello filosofo Ludwig. Il progetto – non una casa borghese ma “la commistione tra una residenza urbana e, almeno in parte, una villa suburbana; e, soprattutto, la cornice di uno stile di vita colto e, sia pure in termini tutt’altro che convenzionali, aristocratico” –, inizialmente concepito dall’architetto Paul Engelmann (allievo di Adof Loos e amico intimo di Wittgenstein), verrà progressivamente modificato da Wittgenstein stesso, il cui ruolo da semplice consulente diviene nel tempo sempre più rilevante, al punto da “imprimere la propria impronta al progetto, sino ad appropriarsene del tutto”. Una trasformazione in realtà non radicale, che “non mette mai in discussione il progetto iniziale di Engelmann”, fatta apparentemente di “piccoli e marginali adattamenti”, che però rappresentano l’articolazione di un preciso pensiero architettonico.
Wittgenstein non ridiscute l’ipotesi di partenza: “progetta le stanze (di cui disegna tutto: porte, finestre, maniglie, lastre di pavimento, lampade, radiatori), ma non progetta la casa”. Con l’obiettivo di caratterizzare ogni ambiente, egli dedica una dedizione assoluta ai dettagli e all’impianto distributivo. La nettezza dei contorni, la chiarezza, la purezza, la semplicità, l’esattezza, il rigore assumono nel progetto un valore estetico. La perfezione diventa sinonimo di sparizione, di “inappuntabile esattezza”, di “scrittura concisa” che non si fa notare. Il rifiuto di utilizzare modanature, battiscopa e soglie fa sembrare le pareti, i pavimenti e i soffitti “piani infiniti che si intersecano, senza l’interferenza di elementi di mediazione”. Wittgenstein “ragiona per piani e non per spazi”, in un’apparente logica lineare, “paratattica”, lontana dal Raumplan di Loos. Le sue mosse “agiscono tutte allo stesso livello. Le contraddizioni non si risolvono perché viene da subito esclusa la possibilità di definire una gerarchia tra differenti esigenze”. Il conflitto tra la “rigidità dell’impianto logico dei percorsi e l’insieme della composizione volumetrica” diventa così insanabile. “Paroles senza langue, deroghe inventive che respingono qualsiasi modello”, sentenziò Bruno Zevi nel 1974. Una scomposizione estrema senza possibilità di ricomposizione, misura dell’abisso – per dirla con le parole del filosofo – “tra l’ordine e la sua esecuzione”, tra il progetto come “macchina logica” che segue leggi ineluttabili e la sua concretizzazione.
Dopo soli dieci anni, nel 1938, con l’occupazione nazista, la casa verrà abbandonata. Venduta nel 1971 e destinata alla demolizione, viene salvata grazie alla mobilitazione dell’intellighenzia architettonico-artistica viennese, diventando monumento nazionale.
Il presente
Dal 1975 a oggi l’edificio ospita l’Istituto di cultura bulgara
(Bulgarisches Kulturinstitut) di Vienna. Diversi sono gli elementi non più fedeli alla versione originale: dalla posizione dell’ingresso principale – non più dalla Kundmanngasse ma dalla Parkgasse attraverso una scalinata costruita successivamente -, alla ridefinizione di alcune partizioni interne tra le stanze del piano nobile, al colore dei serramenti e delle pareti. In questo senso la perdita degli arredi originali, frutto più delle scelte della committenza che della proposta progettuale, restituisce paradossalmente allo spazio, attraverso gli elementi che lo definiscono, la sua essenzialità: estrema semplicità, “ostentata austerità”, pura espressione della concezione architettonica wittgensteiniana.
Perciò, se da una parte le modificazioni snaturano l’idea iniziale (e, viste nella prospettiva dell’opera d’arte totale – Gesamtkunstwerk -, alterano irrimediabilmente il progetto, a maggior ragione se fondato sull’indispensabilità di pochi, significativi elementi e delle loro relazioni), dall’altra sembrano restituire all’opera quella dimensione atemporale alla quale l’approccio all’architettura di Wittgenstein è improntato.
L’esistenza di una molteplicità di rimandi solo in parte riferibili a elementi strettamente architettonici – come dimostrato dalle più raffinate letture della casa – rende la questione ulteriormente complessa. Come giudicare quindi le modificazioni all’interno di un progetto concepito secondo una sequenza così esatta e immutabile? Quale grado di snaturamento apportano? Quale significato ha la sua conservazione (e come dovrebbe essere condotta l’operazione) all’interno di una mutata condizione sociale e a fronte del venir meno dello stile di vita intorno al quale questa architettura, alla stregua di un abito, è stata pensata e costruita? In ultima istanza, può l’architettura, in quanto risposta edificata (nello spazio e nel tempo), essere sintesi critica di tutti i possibili significati?
Il futuro
“Quando costruiamo case, parliamo e scriviamo”, afferma Wittgenstein in Pensieri diversi, esplicitando l’accostamento tra architettura e filosofia come modo di vedere le cose. Questo forte spostamento verso il tema linguistico e verso l’interpretazione dell’edificio come testo è probabilmente il motivo di tanta letteratura intorno alla casa; un’opera che, per certi versi, continua a rimanere enigmatica.
Da quando la critica lo ha affrontato in modo sistematico, l’edificio si è accreditato come “caso architettonico”, oggetto di valutazioni fortemente divergenti rispetto al significato delle scelte progettuali, al punto che alcune letture (Pisani) sono state condotte con l’intento dichiarato di “spazzare via, per quanto possibile, una buona parte dei pregiudizi che vi si sono incrostati negli ultimi decenni”. Evocando la necessità di un lavoro da eseguire non a caso sui testi prima ancora che sull’edificio. A ben vedere queste differenti interpretazioni, ricche di spunti originali, a volte addirittura antitetiche (assurdità vs necessità di una lettura architettonica), sono accomunate da una sorta di sospensione del giudizio. Giudizio che riguarda innanzitutto la collocazione del progetto all’interno della storia dell’architettura, proprio a partire dal rilievo dato di volta in volta alla componente architettonica e a quella filosofica. “Sul risultato – dirà Amendolagine – non ha senso dare alcun giudizio di valore: non ha significato logico riconoscere se alla fine l’edificio diviene ‘grande architettura’ oppure no”. Né quindi mero progetto, avulso dal complesso percorso di ricerca di Wittgenstein, né tantomeno semplice filosofia applicata, pietrificata, logica fatta casa (hausgewordene Logik).
Nel frattempo, incurante della città che tutt’intorno si trasforma, la casa Wittgenstein, con la sua sobria presenza, continua a lasciare aperte alcune questioni fondamentali e soprattutto a interrogarci sul significato dell’architettura.
Tutte le immagini storiche sono tratte da Francesco Amendolagine, Massimo Cacciari, OIKOS. Da Loos a Wittgenstein (Officina Edizioni, Roma, 1975)
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Last modified: 11 Ottobre 2017