Prosegue il dibattito sulla trasformazione del lavoro del designer nell’era iper-tecnologica della sharing economy. Secondo Flaviano Celaschi ancora pochissime realtà coltivano al proprio interno la cultura del progetto
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In un saggio scritto nel 2000 (Il design della forma merce, Il sole 24 ore edizioni) mettevo a fuoco la fondamentale – arte – del design, ovvero la capacità/attitudine di progettare non tanto e non solo la “forma” dei beni prodotti industrialmente, bensì il loro poter diventare “beni di scambio di mercato”: appunto “merce”.
Un pezzo di tronco d’albero tagliato è un oggetto che l’uomo può usare come seduta o come piano di appoggio. Non fu necessario un designer nei 250.000 anni nei quali l’homo sapiens lo ha fatto. È nato il designer quando è nato il sistema di mercato nel quale beni e servizi, per poter essere immessi nel circuito dello scambio, devono assumere una certa forma che già Marx 180 anni fa chiamava “la forma merce”.
La forma merce non corrisponde solo alla forma o alla forma-funzione, è qualcosa di assai più complesso. Un paio di denim strappati è un paio di denim strappati. Cosa può far diventare quel particolare tipo di denim strappato un capo di moda dal costo irriguardoso che diventa il simbolo di una generazione? Accompagnare qualcosa a diventare compravendibile sul mercato è il compito del designer, una figura che non cesserà di esistere finché esisterà lo scambio di mercato. Anzi una figura che proprio oggi dimostra di avere bene a mente che lo scambio di mercato tradizionalmente inteso (dare denaro per merce in un luogo specifico chiamato negozio) è in crisi e che la società contemporanea deve trovare rapidamente alternative credibili, operabili e sostenibili a questo processo di relazione tra persone e cose.
Nessuna paura per il futuro del designer, figura talmente giovane e talmente rara nella società contemporanea (tranne che a Milano all’ora dell’happy hour) da non produrre timore alcuno. È semmai preoccupante che un’innumerevole cifra d’imprese ed organizzazioni ancora oggi ne ignori le potenzialità; basta rilevare che nessuna pubblica amministrazione ne è dotata – e del resto la qualità e le caratteristiche dei servizi pubblici in Italia è sotto gli occhi di tutti – come le istituzioni che producono servizi scolastici e formativi non hanno designer, come tutti i servizi d’intrattenimento, tutti i luoghi turistici; o, ancora, basta rilevare come un’innumerevole quantità di produttori di cibo ignori il potenziale della forma merce nella realizzazione di beni alimentari eccellenti ma che non hanno nessuna possibilità di essere riconosciuti, acquistati e accettati dal mercato globale.
Riconosciamo piuttosto l’ansia con la quale ingegneri ed economisti non vedono l’ora di liquidare il design come un fenomeno di stagione, come un fuoco di paglia che ha offuscato per alcuni attimi l’orizzonte dei saperi aulici veri. Ed è forse per loro triste notare come, intanto che il marketing è morto e sepolto e l’ingegneria gestionale ha come unica soluzione il ridimensionare i costi e licenziare lavoratori per far tornare il bilancio aziendale, il design produca valore tangibile e futuro per le imprese.
In un altro saggio del 2008 (Il designer mediatore tra saperi, in Claudio Germak (a cura di), L’uomo al centro del progetto, Allemandi) notavo come, in un altrettanto rilevante numero di situazioni (comprese le imprese che producono beni e servizi), il problema dell’innovazione fosse bloccato dall’incomunicabilità tra soggetti e detentori di saperi. Ecco quindi che in questi casi il direttore di produzione non parla con il commerciale che odia il marketing e non ha buone relazioni con l’amministrazione e la contabilità, ed il proprietario a volte infatuato da un consulente esterno, a volte colpito dal successo ottenuto da un concorrente, tenta inutilmente di portare innovazione in impresa. In tanti di questi casi l’ingresso di un designer in impresa rappresenta la creazione di una puleggia di connessione, di un cuscinetto di ammortizzazione, di un sistema di ricostruzione paziente dei fili che reggono la cooperazione indispensabile per sviluppare il nuovo. Il designer, buon ultimo arrivato, con l’umiltà della mediazione, crea relazioni virtuose tra saperi e interessi e genera innovazione altrimenti insperabile.
Insomma, prima ancora di fasciarsi la testa su quale barbarismo useremo per annunciare l’ultimo travestimento del designer contemporaneo, inseguendo makers, fusionists, etc., sarebbe interessante comprendere come i mali del nostro sistema produttivo siano ancora troppo nella testa dei produttori chiusi nel loro sapere e nella loro sensibilità non sempre ancora infallibili come un tempo furono. Il vero problema, a mio giudizio, è che ancora pochissime realtà hanno la cultura del progetto al proprio interno e sanno cosa significa dare “forma merce” ai beni e servizi che propongono.
Immagine di copertina: Mario Mankey (Valencia, 1985), «Ego Erectus», installazione temporanea per la mostra «The Haus» (Berlino, 2017). La figura del designer sta crescendo fino ad uscire dai tradizionali canoni in cui ce la immaginiamo? (© «The Haus»)
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Last modified: 25 Agosto 2017