Alcune riflessioni su un fenomeno dilagante, tra autoreferenzialità e coinvolgimento dei cittadini, confrontando il Festival Architettura in Città di Torino con la Milano Arch Week
Negli ultimi dieci anni si è sviluppato in Italia il fenomeno festival. Festival della Letteratura di Mantova, Festival della Filosofia di Modena, Festival della Mente di Sarzana, Festival Architettura in Città di Torino, Festarch a Cagliari e Perugia ora divenuto Milano Arch Week, Festival del Cinema di Roma… Tutte espressioni di un denominatore comune: autoreferenzialità delle singole discipline finalizzato a consolidare potere politico, economico e culturale.
E i cittadini? Non pervenuti. L’autoeferenzialità di un sistema accademico genera interesse solo negli addetti ai lavori o in una parte limitata e colta della società, escludendo la maggioranza. Un atteggiamento in antitesi con il progetto Estate Romana, ideato nel 1977 da Renato Nicolini, assessore alla cultura della giunta capitolina guidata dello storico dell’arte Giulio Carlo Argan. Nicolini si era posto l’obiettivo di far uscire i romani alla conquista della città, ovvero una cultura partecipata dai cittadini offrendo diverse tipologie di eventi come il cinema alla basilica di Massenzio e il Festival dei poeti a Castelporziano nel 1979.
Partendo da questi presupposti si possono analizzare due festival di architettura in antitesi per progetto e obiettivi: Architettura in Città nato a Torino nel 2011 dalla Fondazione per l’architettura e l’Ordine degli Architetti, e la Milano Arch Week che si è svolta dal 12 al 18 giugno scorsi.
Architettura in Città si è posto fin dall’inizio la questione di coinvolgere un pubblico più ampio attraverso le scelte tematiche annuali con uno sguardo multidisciplinare: dall’arte alla musica, dal circo alla danza, dalla fotografia al teatro. Il coinvolgimento è avvenuto anche nella selezione degli spazi non convenzionali per ospitare le conferenze principali e le mostre come le ex officine OGR, la Borsa valori, il Basic Village, l’Archivio di Stato; con un’attitudine a mostrare ai torinesi spazi solitamente poco noti e chiusi al pubblico. Il festival torinese ha costruito nel tempo una fitta rete di eventi off dislocati in città, proprio con l’intento di includere un numero consistente di soggetti culturali e di pubblico. Una dimensione che richiama i Rencontres de la photographie di Arles, nati nel 1970 per presentare al pubblico di fotografi e appassionati le produzioni fotografiche contemporanee, in spazi diversi dal museo come depositi ferroviari, chiese sconsacrate, abbazie dei Templari, scavi archeologici…
Invece i festival ideati e curati da Stefano Boeri nati con il nome di Festarch a Cagliari, sotto la tutela della giunta di Renato Soru (2004-2008) e poi proseguiti a Perugia (2011-2012) si sono trasformati in Miarch fino alla recente Milano Arch Week, il cui scopo è il mantenimento del potere attraverso l’evento mediatico, in una logica ecumenica di coinvolgimento di tutti i soggetti, anche quelli in antitesi con il credo boeriano. Un festival che, senza un progetto culturale, mischia l’evergreen Peter Eisenman con Cino Zucchi, l’ennesima quanto inutile maratona sui Radicals con il tema della ricostruzione… Insomma una ratatouille di eventi, vespatour, conferenze, seguendo una modalità simile al festival della canzone italiana, accostando il rock con la musica elettronica, il rap con il pop. Ma Sanremo è Sanremo, ovvero un festival nazional popolare; non è la Boeri Arch Week che vuole essere l’evento dell’architettura dell’anno.
Così occorre fare una seria riflessione, in questo periodo in cui proliferano i festival di architettura, sulla necessità di coinvolgere i cittadini e sull’urgenza nel trattare temi sentiti dalle comunità come necessari a migliorarne le condizioni di vita.
Nell’immagine di copertina, la folla adorante e inebetita in una scena del film Metropolis, di Fritz Lang (1927)
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Last modified: 21 Giugno 2017