La Fondazione Franco Albini festeggia i primi 10 anni di condivisione e conservazione degli insegnamenti del maestro. A tu per tu con il figlio Marco, che la presiede
MILANO. Marco Albini, figlio di Franco, è il presidente della Fondazione Franco Albini, se ne occupa insieme alla figlia Paola. Lo studio di via Telesio, che li ospita dal 1970, è un piccolo scrigno del moderno milanese. Un’occasione continua per guardare questa o quella poltrona, questo o quel libro. Qui vengono, su appuntamento, studenti, ricercatori, semplici curiosi. «E sempre più stranieri», esordisce Marco Albini. «Inglesi, americani, giapponesi. Mi sorprende tutto questo interesse. Alla presentazione delle attività del decennale c’erano 250 persone, un’enormità. A loro spieghiamo chi è stato Franco Albini e i suoi progetti».
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Suscitano più interesse gli arredi o le architetture?
Forse gli arredi. Ma sta proprio qui il punto decisivo della nostra attività. Raccontare Albini è un modo per parlare di qualcosa di più importante: il metodo del progetto. E in questo metodo non c’è differenza tra progettare un tavolo o un edificio: si ragiona sui pezzi e poi si assemblano fino a raggiungere forma e immagine desiderate.
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Dal cucchiaio alla città, come diceva Ernesto Nathan Rogers.
Sì e no. Lavorare senza specialismi era un vantaggio. L’architetto aveva una formazione globale, progettava lo spazio. Anche negli allestimenti, che hanno rappresentato una buona parte del lavoro di mio padre: erano – e sono – architetture atmosferiche, perché impossibili da concepire senza il luogo in cui s’inseriscono. Poi, e oggi è forse inevitabile, un architetto potrà specializzarsi su un campo. Ma non può perdere la visione unitaria. Altrimenti è un altro mestiere. Le specializzazioni non possono essere riduzioni, come troppo spesso ormai avviene.
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C’era anche un terreno fertile, dagli anni ‘30 in poi, per questo approccio.
È stato un periodo incredibile, che raccontiamo anche attraverso gli spettacoli teatrali. L’architettura, nelle sue sinergie con le altre forme artistiche, era un modo di coltivare la libertà. Quello che succedeva nella società italiana – la dittatura, la violenza, poi la guerra – spingeva ad una forza politica e polemica che già era scomparsa nei decenni successivi alla guerra.
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Uno stimolo oggi sempre più assente. Fortunatamente, per certi versi.
Sì certo, è una fortuna perché corrisponde con un periodo di pace. Però non possiamo non vedere l’enorme difficoltà di trovare una linea comune, un modo di esprimersi e di raccontarsi della disciplina. Manca un nemico da combattere e per cui impegnarsi. O forse i nemici sono troppi.
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E così scompaiono anche le visioni ideali.
Negli anni ‘30 tutti lavoravano per immaginare la casa di tutti. E anche gli arredi per quella casa. Con risultati anche paradossali, in verità. Perché quegli arredi, oggi, possono permetterseli in pochissimi.
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Arredi che è possibile vedere nella sede della Fondazione.
Insieme ai disegni e all’archivio fotografico. A partire dal 2000 abbiamo iniziato a digitalizzare una parte di questo patrimonio enorme. Che oggi è possibile consultare.
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Un impegno nato prima della Fondazione.
Avevamo già iniziato questa raccolta. Poi, nel 2006, dopo la “fuga” a Mendrisio dell’Archivio Viganò, il Ministero ha vincolato gli archivi del moderno: non si potevano vendere e dovevano essere aperti al pubblico. Serviva trovare una formula. Da qui nacque l’idea della Fondazione.
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Un bilancio?
Economicamente è nullo! Nel senso che sopravvive perché non ha spese, è ospitata nello studio. Si sovvenziona grazie ad alcuni contributi e ai partner che vengono individuati per le diverse iniziative. Abbiamo un rapporto importante con il Comune di Milano e con le altre fondazioni, che costituiscono una rete: quelle dedicate a Castiglioni e a Magistretti. Così riusciamo a mantenere questo patrimonio e a divulgarlo.
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Immagine di copertina: Franco Albini con il figlio Marco (© Fondazione Franco Albini)
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Last modified: 6 Marzo 2017
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