Sensibilità e coraggio e nessun timore di andare controcorrente hanno caratterizzato una carriera lunga sessant’anni in cui è stato allievo di Albini, Gardella e Scarpa, docente e progettista di pietre miliari per la città di Bergamo
Le architetture di Giuseppe Gambirasio (Bergamo, 1930-2016) sono impronte che costellano come “stepping stones” la città di Bergamo e il suo hinterland. Nella sua lunga carriera ha avuto modo di progettare e realizzare anche in altri contesti, ma è nella sua città natale che si possono ritrovare i “pezzi” più pregiati della sua collezione. Osservandoli oggi non si può non notare la diversità che li contraddistingue e l’onnipresente caratteristica della sperimentazione progettuale che li lega come pagine del medesimo racconto.
Gambirasio ha sempre dimostrato sensibilità e coraggio, non ha mai avuto il timore di andare controcorrente o di incorrere in polemiche e critiche, e ha disegnato la sua architettura seguendo il mutare dei tempi, mantenendo negli anni la passione per il mestiere.
Un lungo cammino
La carriera di Gambirasio ha inizio con la laurea conseguita allo IUAV di Venezia nel 1957
. Nell’istituto veneziano ha occasione di entrare in contatto con la fertile cultura architettonica di quegli anni, diventando assistente di Albini, Samonà, Gardella e Scarpa. Dal 1981 assume gli incarichi di docente, prorettore, membro del Consiglio d’Amministrazione e presidente del corso di laurea. L’attività accademica non l’ha mai allontanato dalla sua grande passione per il mestiere dell’architetto e, nei quasi sessant’anni di professione, ha progettato e costruito numerosi interventi alla scala architettonica e urbana cimentandosi anche con piani urbanistici e masterplan.
Tra gli anni sessanta e ottanta si concentra il periodo più denso e interessante del suo lavoro. A partire dal 1961 avvia una folta sequenza di progetti (molti dei quali nella città di Bergamo) che sono l’occasione per esprimere la sua ricerca architettonica e la connaturata vocazione sperimentale. Insieme agli amici-colleghi che lo accompagneranno in quegli anni (Walter Barbero, Giorgio Zenoni e Baran Ciagà) forma un gruppo di compagni di progetto e realizza interventi privati e pubblici che rimangono fra gli esempi fondamentali della sua architettura: edifici privati polifunzionali e commerciali, edifici e spazi pubblici, residenze e case popolari. Fra queste ci sono le architetture più riuscite, come il calibrato e rigoroso Convento francescano di S. Antonio, ed anche quelle più controverse, come il complesso polifunzionale Il Triangolo, esito di un iter durato dieci anni (dal 1973 al 1983) e co-progettato nell’ultima versione con altri architetti locali. Come progettista si è anche confrontato in più occasioni con il tema del recupero e conversione di grandi stabilimenti industriali dismessi e ha anche svolto il ruolo di Coordinatore per la Salvaguardia di Venezia e di Consulente del Governo per la ricostruzione post-terremoto di Napoli. Nella sua lunga attività professionale ha dimostrato di essere poliedrico e originale e le sue architetture sono segni tangibili di un’eredità che dev’essere custodita con cura e rispetto.
Due opere fondamentali
Due opere del repertorio di Gambirasio meritano di essere ricordate e commentate. La prima è l’edificio costruito a Bergamo sulle ceneri dell’ex Teatro Duse (1969), forse il progetto più conosciuto e anche fra i più rappresentativi della maniera che Gambirasio aveva di pensare l’architettura. In esso la complessità dell’articolazione spaziale si somma alla commistione di più funzioni (negozi, residenze, uffici, un autosilos e un cinema interrato). La sezione è generatrice del progetto, come in molti altri casi, e ordina la stratificazione spaziale-funzionale in verticale. L’organismo architettonico è unitario ma è formato da un insieme di volumi che, al piano della città, rispettano le giaciture e le regole imposte dal contesto ma, ai piani superiori, le contraddicono attraverso un dinamismo di piani che ruotano e slittano nel vuoto. L’edificio negli anni recenti è stato oggetto di un intervento di manutenzione che purtroppo ha operato scelte materiche e cromatiche molto discutibili, dimostrando per l’ennesima volta la necessità di prestare maggiore attenzione al tema del restauro del moderno.
Nel lavoro di Gambirasio il tema della residenza ha sempre ricoperto un ruolo importante e il quartiere residenziale di via Carducci a Bergamo (1976-79) ne è l’episodio più interessante. È la testimonianza della volontà dell’architetto di proporre, in anni in cui si manifestava l’insorgere dello sprawl dis-urbano, un modello di città compatto sviluppato in orizzontale. È un intervento di edilizia convenzionata che dà vita a una vera e propria sperimentazione a scala urbana e disegna un’intera parte di città (32 ettari, 400 unità, 1.700 abitanti) che si relaziona al contesto e si costruisce sulla reiterazione del tipo della casa a patio. La composizione delle unità abitative cresce gradualmente in verticale, rispettando il cono prospettico verso Città Alta e i colli di Bergamo, e ordisce un tessuto residenziale denso dove l’attenzione del progetto si sposta dall’interno delle abitazioni all’esterno dello spazio collettivo di relazione. Gli edifici a corte aperta si incastrano con regolarità sulla trama delle promenade pedonali che richiamano la memoria delle strette vie delle città storiche (doveroso il rimando alle “calli” di Venezia) e guardano a un’idea di città che insegue i modelli ad alta densità e si contrappone alla logica dissipativa che invece avrà il sopravvento.
Immagine di copertina: il quartiere di via Carducci (© Gabriele Basilico)