Lo studio veneziano fa l’en plein: curatori del Padiglione Italia e invitati alla mostra principale, dove esporranno parte del loro lavoro in Africa. A specchio di un consolidato modo di lavorare, “Taking care/Progettare per il bene comune” sarà un Padiglione “low cost” basato sul riciclo e l’ottimizzazione dei costi, con tre sezioni che esporranno progetti in grado di dare risposte concrete alle necessità della comunità
Alejandro Aravena vorrebbe che la Biennale di quest’anno offrisse un punto di vista come quello di Maria Reiche, l’archeologa che attraversava il deserto sudamericano portando con sé una scala di metallo per osservare dall’alto i geroglifici delle Linee di Nazca. E voi, salendo sulla vostra scala immaginaria, che cosa avete osservato?
L’invito di Aravena è di osservare l’architettura assumendo un campo visuale diverso. Ci ha colpito molto il paradosso che Aravena richiama affermando che “non c’è peggior cosa di dar risposte giuste a domande sbagliate”. Questo è un modo di pensare che ci accomuna al curatore della 15° Biennale, perché è proprio nella ricerca delle domande che, secondo noi, un progettista dovrebbe porre la base fondamentale del suo lavoro. Nel nostro studio, quando lavoriamo a progetti in luoghi critici, nelle periferie italiane o in altri contesti problematici, cerchiamo sempre di riscontrare quali siano le domande giuste da porsi, e spesso cerchiamo domande scomode, alle quali non è facile dare una risposta. Perché è da queste domande che scaturiscono risposte traducibili nella buona architettura, ossia in un’architettura in grado di offrire dignità e diritti alle persone a cui è rivolta.
Nel concept del Padiglione Italia siamo partiti proprio da questo presupposto. Ci siamo chiesti: quali sono le domande giuste che ci dobbiamo porre, quali le risposte che vogliamo ottenere in forma di progetti da presentare all’interno della mostra? Alcune di queste domande sono, ad esempio: in che cosa risiede effettivamente il valore sociale dell’architettura? Quali sono i parametri che oggi dovrebbero definire una buona opera di architettura? Perché una collettività dovrebbe riconoscersi nell’architettura? E, soprattutto, come può l’architettura contribuire a creare un “bene comune”? E per trovare risposte a queste domande siamo “scesi in strada”, abbiamo cercato architetture che avessero la capacità di narrare storie fatte di lavoro progettuale e di risposte concrete alle necessità, ma anche di capacità di coinvolgimento delle comunità a cui si rivolgono.
Il coinvolgimento delle comunità e delle persone, e quindi la “partecipazione” nel processo del progetto, mi sembra uno dei punti di attenzione del concept di “Taking Care/Progettare per il bene comune”. Come si è declinato questo tema nella scelta dei progetti selezionati?
I venti progetti selezionati, elaborati da altrettanti studi italiani, sono tutti accomunati da una capacità di dare risposte raccontando storie a più voci, facendo emergere il ruolo delle committente e degli architetti ma anche delle comunità coinvolte. In sostanza, la nostra selezione è partita da una riflessione attorno ai “beni comuni”: cosa sono, cosa significano oggi? L’articolazione del concetto di “bene comune” ha assunto nel nostro tempo una progressiva sofisticazione, con tante declinazioni. E i progetti selezionati contengono 20 buone pratiche che affermano l’importanza del bene comune. Sono una collezione di buoni esempi, anche molto diversi tra loro, localizzati in Italia e all’estero, che nonostante la diversità di scala, di dimensione, di funzione (l’abitare, il lavoro, la salute, l’istruzione, la cultura) sono legati all’azione concreta e sono una prova di come l’architettura possa essere veicolo capace di condurre ai valori della cultura, della socialità, della partecipazione, della salute, dell’integrazione, della legalità. La mostra al Padiglione Italia presenta così un caleidoscopio di esperienze che dimostrano come si possano intendere i medesimi concetti che dicevamo prima a prescindere dal budget o dal tipo di committenza. E quindi possiamo incontrare la storia di un’amministrazione pubblica che stanzia risorse limitate per la riqualificazione di una strada e dello studio di architettura incaricato del progetto che trasforma l’occasione in un riassetto complessivo del paesaggio. Oppure, la storia di un gruppo di architetti che realizza, con risorse limitate e coinvolgendo la comunità locale, un centro culturale che servirà di esempio per altri centri simili. E anche la storia di un ente che riqualifica uno stabilimento dismesso per realizzare un centro d’innovazione scientifica, perché crede nel valore della scienza come bene comune.
Pensare, Incontrare, Agire. Sono le tre sezioni in cui si articola il Padiglione Italia. La prima, più teorica, è dedicata al contributo di esponenti della cultura contemporanea sul tema del “bene comune”; la seconda presenta la selezione dei 20 progetti già ricordati; la terza, infine, è riservata a una sperimentazione progettuale sul campo. Di che cosa si tratta?
La sezione Agire presenta cinque progetti inediti realizzati per conto di altrettante associazioni impegnate in aree periferiche del territorio italiano per contrastare i fenomeni di marginalità. Sono cinque “artefatti”, o dispositivi mobili ideati attraverso un continuo lavoro partecipato tra progettisti e associazioni. Ognuno di questi è destinato alle stesse associazioni che hanno contribuito al progetto, affinché vengano attivati sul territorio, contribuendo a migliorare la qualità della vita in contesti difficili. In questo modo abbiamo voluto portare nella mostra progetti di architettura e azioni di grande concretezza, in grado di diventare presidi a favore della legalità, della salute, della cultura, del lavoro, dello sport. Questo risponde alla nostra intenzione di far germogliare e riprodurre al di fuori della Biennale le proposte che presentiamo. E vorremmo che questi progetti attivassero un processo di risveglio civile. La realizzazione dei cinque dispositivi sarà finanziata da sponsorizzazioni private e dai proventi di una campagna di crowdfunding civico che verrà avviata in occasione dell’inaugurazione della mostra.
Da quanto dite si capisce che il Padiglione Italia di quest’anno sarà diverso dal solito, direi anche anticonformista rispetto a quello che abbiamo visto nelle precedenti edizioni.
Il nostro studio si è sempre posto l’idea di ribaltare la filiera tradizionale del progetto, partendo dal basso e ascoltando le necessità delle persone. I nostri progetti nascono in questo modo e i recenti interventi di co-housing in Italia ne sono un evidente esempio, perché sono progetti partecipativi che nascono dal coinvolgimento delle persone. Il modo in cui abbiamo pensato il Padiglione Italia rispecchia il nostro modo di lavorare, d’intendere l’architettura. E questo fino alle scelte per l’allestimento “low-cost” che evita il superfluo, ottimizza i costi, ricicla alcuni elementi da allestimenti precedenti. Un altro aspetto che abbiamo voluto portare all’interno del Padiglione, e che abbiamo mutuato dall’esperienza dei processi partecipativi, è il ricorso al mondo visivo dei fumetti, che ormai da anni appartiene al metodo di comunicazione del nostro studio.
TAMassociati alla 15° Biennale fa “l’en plein”: non solo curatori del Padiglione Italia ma anche invitati fra gli architetti che rappresenteranno il nostro paese alla mostra principale “Reporting from the front”. Potete dare qualche anticipazione su quali progetti presenterete?
L’invito di Aravena a rappresentare l’Italia è stato raccolto da noi con grande piacere. Per il nostro modo di fare architettura abbiamo sicuramente una vicinanza con Elemental. Pensiamo che in questa affinità e coincidenza di visioni risieda l’opportunità che ci è stata offerta. In questi giorni stiamo completando la preparazione dei materiali che presenteremo alla mostra “Reporting from the front”. Abbiamo deciso di portare un progetto africano cui stiamo lavorando. La realizzazione avrà carattere culturale e formativo e darà un messaggio sicuramente innovativo e stimolante per tutta la regione circostante e non solo. Un messaggio di futuro, di fiducia, di ottimismo. Di più al momento non possiamo rivelare.
I curatori
TAMassociati (fondato nel 1996) con sede a Venezia, Bologna, Trieste e Parigi, coniuga impegno civile e professione, operando nell’architettura sostenibile, nell’urbanistica, nella progettazione del paesaggio, nella conduzione di processi partecipativi e didattici, nella grafica e nella comunicazione sociale. Numerosi i premi e i riconoscimenti: nel 2013 ha ottenuto il premio Aga Khan per l’architettura per l’eccellenza rappresentata dal Centro Salam di cardiochirurgia in Sudan, il premio internazionale Ius-Capocchin per la realizzazione dell’ospedale pediatrico più sostenibile al mondo (Port Sudan) e il Curry Stone Design Prize. Nel 2014 ha vinto lo Zumtobel Group Award per l’innovazione e la sostenibilità rappresentate dall’ospedale pediatrico realizzato in Sudan. Celebrato come Architetto Italiano dell’anno 2014 “per la capacità di valorizzare la dimensione etica della professione”, TAMassociati ha esposto i propri lavori in numerose mostre ed eventi internazionali, tra cui “Architecture is Life” presso l’Aga Khan University di Karachi (Pakistan, 2014); “Five Projects for a Sustainable World” alla Cité de l’Architecture et du Patrimoine (Parigi, 2014); “AFRITECTURE – Building Social Change” presso la Pinakothek der Moderne (Monaco di Baviera, 2013); Triennale di Architettura di Milano, 2012; Mostre Internazionali di Architettura della Biennale di Venezia, edizioni 2012 e 2010. Attualmente lo studio è impegnato in Uganda, Senegal, Italia e Afghanistan. Il team di TAMassociati: Massimo Lepore, Raul Pantaleo, Simone Sfriso con Laura Candelpergher, Annamaria Draghetti, Elisabetta Facchinetti, Marta Gerardi, Emanuela Not, Enrico Vianello. Collaboratori: Oliviero Blasetti, Milena D’Acunto, Valentina Milan.
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alejandro aravena , biennale venezia 2016 , reporting from the front
Last modified: 11 Aprile 2016
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