Un ricordo dell’architetto ticinese che, attraverso le proprie opere e il rigore della ricerca e del pensiero, tra anni ’50 e ’60 ha contribuito ad aprire gli orizzonti del piccolo cantone subalpino
Orientata prevalentemente alla cosiddetta “Scuola ticinese” (termine contestato dagli stessi protagonisti radunati sotto questa etichetta), l’attenzione della storiografia ha finito per trascurare quegli architetti che, a cavaliere tra gli anni ’50 e ’60, hanno contribuito ad aprire a un orizzonte più ampio il piccolo cantone subalpino, fino ad allora restio alle diverse declinazioni della Modernità e impaniato, nel solco del dibattito intorno ad “italianità” ed “elvetismo”, nella faticosa ricerca di una propria “identità”. Tra queste figure (come Tita Carloni e Franco Ponti) spicca Peppo Brivio, per il rigore della sua ricerca e del pensiero che la sottende e per aver saputo interpretare, come pochissimi altri in Svizzera, il ruolo di “architetto intellettuale”: ruolo riconosciutogli anzitutto da Vittorio Gregotti, con cui Brivio ebbe modo di collaborare negli anni 1963-1964, in particolare nella sezione introduttiva della XIII Triennale di Milano, saldando un’amicizia venata di stima. “[…] Ciò che io devo a Brivio agisce ancora nei miei momenti di lavoro che considero migliori”, ha scritto Gregotti (“Archi”, 2013, n. 4, p. 63). E questo riconoscimento attesta pienamente il valore intellettuale di Brivio, il cui magistero ha avuto un ruolo rilevante, e talora decisivo, per numerosi architetti ticinesi (della sua generazione, come Ponti, o più giovani, come Mario Campi, Luigi Snozzi, Livio Vacchini), trovando sanzione accademica nella nomina a professore di Storia dell’architettura (ma con forti implicazioni nel dipartimento di progettazione) all’Ecole d’Architecture dell’Università di Ginevra.
Incardinata alla tenace e feconda ricerca di una personale grammatica architettonica, ritenendo, come aveva dichiarato a Renato Pedio, che “l’astrazione dalla grammatica e dalla storia della grammatica corrisponde spesso a uno stato di confusione nel giudizio critico, e peggio, nella produzione corrente dell’architettura” (“L’architettura: cronache e storia”, vol. 64, a. vi, n. 10, febbraio 1961 p. 679), l’opera di Brivio è particolarmente intensa nei due decenni che corrono dal 1949, quando da Zurigo (dove aveva studiato e lavorato con il suo docente di tesi, William Dunkel) rientra nel Ticino, alla nomina all’Università di Ginevra, nel 1969. Le linee portanti della sua ricerca sono annunciate da quel “concentrato di paradigmi architettonici” (così Tita Carloni) che è stata la stazione di partenza della funivia Locarno-Orselina-Cardada (1951-1952), purtroppo demolita, dove Brivio manifesta la sua predilezione per le volumetrie articolate, guardando a Frank Lloyd Wright e agli amati neoplasticisti, ma introducendo in sovrappiù un’attenzione all’espressione della struttura estranea a questi ultimi.
Il suo linguaggio si manifesta compiutamente, nella seconda metà degli anni ’50, nelle case ad appartamenti “Albairone” e “Cate” a Lugano-Massagno, che nel panorama architettonico ticinese, in un periodo pur ricco di fermenti, s’impongono come un’epifania. Muovendo da esperienze contemporanee, come quelle compiute dai giovani architetti radunati attorno ad ATBAT-Afrique, ma con un’originalità di conio garantita dal suo rigore intellettuale, Brivio conferisce a un impianto ancora fondato sulla triade “basamento, corpo, coronamento” una marcata configurazione plastica, conseguita alternando da un piano all’altro la disposizione dei volumi pieni e delle logge che scavano profonde ombre nei prospetti. Ne derivano edifici che, anche quando sono racchiusi da una cortina edilizia come casa “Cate”, spiccano per la loro articolazione volumetrica calibrata e possente, giocata su contrasti chiaroscurali e ponderali, che si riflette nella qualità spaziale degli interni.
Negli anni ’60 la sua ricerca percorre nuove strade, indagando non di rado configurazioni strutturali e spaziali complesse, che trovano la loro massima manifestazione nel progetto, non realizzato, per casa Koerfer (accolto nel numero monografico di “Edilizia moderna” dedicato all’architettura italiana, nel 1963), dove reminiscenze dell’architettura islamica e dell’estremo Oriente (di cui Brivio ha avuto esperienza attraverso lunghi viaggi, meticolosamente documentati) si accordano a richiami a Louis Kahn, in particolare al progetto per il Martin’s Research Institute for Advanced Studies, a Baltimora.
A fronte della ricchezza del suo apporto come architetto e intellettuale, colpisce l’assenza di una monografia dedicata a Brivio. Il progetto di ricerca recentemente finanziato dal Dipartimento dell’educazione e della cultura del Cantone Ticino (fondato sulla documentazione conservata alla Fondazione Archivi Architetti Ticinesi) e il volume che ne deriverà, potranno finalmente colmare questa lacuna.
Peppo Brivio (1923-2016)
Nato a Lugano, si laurea nel 1947 al Politecnico Federale di Zurigo con William Dunkel, di cui è poi assistente per due anni. Rientrato nel Cantone Ticino, realizza con Franco Ponti, a Bellinzona, alcuni edifici (le case “Isola Bella”, 1949-1950, casa “Campagna”, 1950-1953) che già annunciano, a uno stadio germinale, i principali temi della sua opera. Nel frattempo apre il proprio studio a Locarno, associandosi dal 1949 al 1955 con René Pedrazzini e collaborando più volte con un maestro dell’architettura ticinese come Rino Tami. Risalgono a questo periodo le stazioni della funivia Locarno-Orselina-Cardada (1951-1952, demolite), la casa ad appartamenti “Spazio” a Locarno (1954-1956), e due opere fondamentali come le case ad appartamenti “Albairone” e “Cate” (Lugano-Massagno, 1955-1956, 1957-1958), in cui si manifesta pienamente la sua personale grammatica architettonica. È il preludio alla sua stagione più intensa e feconda, durante la quale realizza la casa ad appartamenti “Rosolaccio” a Chiasso (1959-1960), casa “Corinna” a Morbio, casa dei Pini a Vacallo, le case di vacanza a Caprino, la stazione di servizio a Castasegna (Cantone Grigioni): opere che, nella cronologia fornita dallo stesso architetto, risalgono al breve giro di due anni, dal 1962 al 1963, durante i quali lavora anche al magnifico progetto, non realizzato, per casa Koerfer a Moscia, presso Ascona. Risale ad allora la collaborazione con Vittorio Gregotti che porterà Brivio, nel 1964, a firmare l’allestimento della sezione introduttiva della XIII Triennale di Milano insieme allo stesso Gregotti, a Lodovico Meneghetti e Giotto Stoppino. Seguiranno altre opere importanti, come la sede della banca Weisscredit a Chiasso (1965-1967) e casa “Valleggione” a Bironico (1965-1969). Nel 1969 è nominato professore all’Ecole d’Architecture dell’Università di Ginevra, carica che terrà sino al 1990. In questi anni la sua produzione si dirada e la sua figura entra lentamente nell’ombra, malgrado architetti della generazione più giovane, tra i quali Mario Campi, Luigi Snozzi e Livio Vacchini, gli riconoscano il ruolo di maestro.
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Last modified: 10 Marzo 2016