Riflessioni a margine dell’incendio che, in agosto, ha ulteriormente compromesso la “vita” dell’edificio realizzato da Pier Luigi Nervi per Italia ’61 a Torino. Quando non si hanno parole per indicare un’architettura!
Ci sono avventure umane che assumono nel tempo il valore di allegorie; altre che quel valore lo assumono sin dall’inizio: storie che diventano scritture letterarie… nella culla. La storia più che cinquantennale del Palazzo del Lavoro, appartiene alle seconde.
Allegoria di cosa? Può sembrare un paradosso oggi, ma in primo luogo del mutare, in questo mezzo secolo, del concetto di rischio. Il progetto di Pier Luigi Nervi dà forma e materia a una società e a una cultura che vive il rischio come sfida, ma anche come misura delle abilità di chi la intraprende. Dal progetto che si fa e modifica costruendo, ai mesi della messa in opera del cantiere, all’unico tempo di vita che l’opera conosce, quello dell’Esposizione, il Palazzo del Lavoro è la scena di una società che costruisce Italia ’61 per rappresentare un mondo, quello italiano, che celebra una ricostruzione tutta fondata sul rischio: imprenditoriale, sociale, intellettuale, creativo. E il Palazzo del Lavoro è il simbolo di quella stagione. La sua vicenda, dal giorno della chiusura dell’Esposizione, poco alla volta testimonia prima l’incapacità e poi l’abbandono del valore di misura sociale e culturale del rischio, infine il sostituirsi della sfida con l’equivalenza di rischio e pericolo. L’abbandono in cui versa per decenni, come il prospettarsi di riusi che lo assumono come puro contenitore, non sono che il riflesso di quel passaggio di significati: ne sono forse il simbolo.
La seconda allegoria è proprio quella del mutare del valore del simbolo nella società italiana. Il Palazzo del Lavoro è in ogni suo particolare l’affermazione, persino un po’ retorica, dell’importanza del simbolo e del mito e delle sue necessarie metafore nell’Italia di inizio anni sessanta. E’ inutile qui ripercorrerle: basta aprire i giornali di quegli anni per trovarsi di fronte a metafore della forza, ricondotte all’antico Egitto o al Rinascimento poco importa, che un’architettura può materializzare. Quella italiana di quegli anni è una società che ha non solo bisogno, ma che vive il piacere di giocare e creare simboli e miti. E’ sufficiente ricordare gli oggetti del design che pure popolano il non lontano salone della moda: la moda stessa ma anche la Fiat Seicento, multipla per Italia ’61; gli eroi neorealisti; la dimensione fuori scala, spaziale e urbana, della grande fabbrica. Una società che crea, magari con grandi ingenuità, simboli e miti, è indubbiamente una società semplificata, almeno nelle sue rappresentazioni, ma è una società viva.
La vita grama del Palazzo del Lavoro accompagna il progressivo spegnersi di miti e simboli. Sino all’incapacità di ritrovare un significato a quell’ingombrante testimonianza di un’epoca che si vuole felice. La povertà concettuale della sostituzione di un simbolo con un contenitore, per di più della funzione più banale di una società non solo merceologica ma mercantile, parla da sola.
E ancora, l’allegoria della tecnica e della sua capacità di produrre monumenti, non solo organizzazione sociale e produttiva. Il Palazzo del Lavoro è l’immagine più forte di un’Italia che costruisce dighe, autostrade e ponti in tutto il mondo; un’Italia che s’inventa nuove tipologie: si pensi anche solo agli autogrill, per togliere un po’ di retorica a una storia altrimenti troppo piena di nostalgia. E li costruisce attraverso una tecnica e una tecnologia vissuta come valore, anche se non soprattutto sociale. Quella stessa tecnica diventerà negli anni insieme il refrain essenziale della secolarizzazione e la causa prima del degrado ambientale, della perdita di valori con conseguente trionfo di un relativismo morale e della messa in discussione della sopravvivenza della “casa comune”. Da strumento per l’emancipazione, quest’allegoria ci porta sino alla causa della possibile estinzione dell’uomo. E la ruggine sui brise soleil del Palazzo sono forse la rappresentazione più efficace di questo rovesciamento di senso.
C’è poi l’allegoria della decisione politica. Italia ’61 e soprattutto solo il Palazzo del Lavoro, sono quasi la dimostrazione di una politica e di un’amministrazione non solo che decide ma che vive di poche norme, di una presa diretta della politica con la realtà: persino la monumentalità del Palazzo del Lavoro è l’immagine di un passaggio diretto dalla committenza al progettista e all’impresa. L’infinita e infelice (negli esiti) serie di proposte di riuso dell’edificio si arenano non solo contro l’oggettiva difficoltà di ridare un significato – forse si dovrebbe dire rinominare – a quell’architettura, al cui contorno peraltro (dalla cultura ai simboli, dal valore della tecnica alle forme della decisone politica) tutto è mutato. Ma soprattutto, tali proposte si scontrano con una società che produce molte norme e burocrazie ma poche azioni; sino all’ultima infelice avventura di un progetto di riuso arenato contro una normativa urbanistica a dir poco bizantina.
Il Palazzo del Lavoro ha perso finanche il suo nome (pensare oggi che il lavoro sia al centro se non della disperazione sociale è quasi paradossale), mentre sono cresciute invisibili e quasi inestricabili tele di ragno che avvolgono quell’esemplare di una stagione in cui rischio, tecnica, simbolo e decisone avevano significati quasi ribaltati rispetto a oggi.
Un progetto vive della sua capacità di trovare o ritrovare il “nome” a un’architettura. Quasi come per un quadro, il nome con cui s’indica un’architettura ha uno straordinario valore nel facilitane la ricezione. La difficoltà di trovare una funzione non nasce solo dalla cultura della sostituzione – che è uno dei drammi autentici delle politiche di riuso, non a caso di vuoti (forse sarebbe stato più utile chiamarli spazi privi di nome) industriali. Nasce anche dall’incapacità di rinominare per di più architetture che, come il Palazzo del Lavoro, hanno incarnato valori complessi di una società e di una cultura. Un progetto senza nome, per di più alla scala che il Palazzo del Lavoro propone, non può che indurre a declassarlo a contenitore, con tutta l’ipocrisia di dover fingere che il valore simbolico che si porterebbe dietro sia il valore aggiunto per cui si tenta di rianimare un malato quasi terminale. Forse, al di là dello scontro tra saperi esperti (i saperi di una patrimonializzazione sempre più centrale nella nostra società) e policies urbane – questione tutt’altro che marginale, testimoniata dalle vicende degli ultimi vent’anni del Palazzo -, il vero nodo è che è difficile che un orfano senza nome non divenga un “esposto” alla ruota del convento delle pratiche ormai esclusivamente negoziali dello spazio urbano, non solo a Torino. O che queste pratiche riescano anche solo a cogliere la necessità di ripartire dalla parola, dal nome, per restituire una vita non solo da scatola, per di più cara e infelice, a un mito e a un simbolo.
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Last modified: 28 Ottobre 2015