In arrivo dalla 64° Berlinale, la locandina di «Cattedrali della cultura» si chiede: «Se questi edifici potessero parlare che cosa ci racconterebbero?». Hanno provato a rispondere sei noti registi, confrontati ad altrettanto famose (per ragioni diverse) architetture: la Filarmonica di Berlino (Wim Wenders), la Biblioteca nazionale Russa a San Pietroburgo (Michael Glawogger), il carcere di Halden, Norvegia (Michael Madsen), il Salk Institute a La Jolla, California (Robert Redford), l’Opera House di Oslo (Margreth Olin) e il Centre Pompidou a Parigi (Karim Ainouz).
E proprio in prima persona 4 dei 6 edifici ci parlano dal grande schermo: non lo fanno la biblioteca russa (che si affida a citazioni dai libri in essa contenuti, deflettendo così un po’ dagli intenti dell’indagine) e il Salk Institute (dove all’io narrante, in un tripudio di retorica, si sostituiscono frasi del progettista Louis Kahn, del committente Jonas Salk e di alcune persone che ci lavorano). Bello poi che tutti vengano considerati luoghi di cultura, in un’accezione allargata: anche il centro californiano di ricerca scientifica e soprattutto lo scandinavo carcere di massima sicurezza, costruito nel 2010 su progetto di Erik Møller Architects e HLM Architects e considerato dal «Guardian» la prigione più umana del mondo; luogo che, nonostante tutto, restituisce una speranza di redenzione grazie al progetto dello spazio e delle funzioni ospitate. Infatti, ciò che emerge dalla visione è proprio la centralità degli usi, attraverso le modalità di fruizione da parte degli utenti: un edificio è «vivo» nella misura in cui è vissuto. E qui sta il vero banco di prova dell’architettura: la capacità (o meno) di farsi pedagogia spaziale arrivando, nei migliori dei casi, a «plasmare» i comportamenti. La macchina da presa, poi, ci consente lo sguardo privato dietro le quinte: nei camerini, nelle sale prove, nei depositi, nei sottotetti, nelle celle, nei caveau degli impianti; oppure nei momenti in cui l’edificio è chiuso al pubblico ed entra in azione il personale di servizio.
Un’ultima nota di carattere storico architettonico. Sebbene siano ritratte opere tutte pregevoli, non si capisce la scelta del caso russo: l’edificio neoclassico della vecchia sede, disomogeneo rispetto alle icone contemporanee firmate da Scharoun, Kahn, Snøhetta, Piano & Rogers.
Quanto alla regia: didascalico Wenders, filosofico Glawogger, ermeneutico Madsen, esistenzialista Ainouz, poetica Olin, stucchevole Redford.
Il film è stato proiettato in data unica in tutta Italia il 21 aprile: peccato! A Torino, la sala pullulava di architetti. Qualcun altro l’avrà visto? Con quale giudizio?
Se gli edifici potessero parlare, che cosa direbbero?
