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Carlo OlmoWritten by: Reviews

Corbu scienziato e non artista?

Corbu scienziato e non artista?

PARIGI. Il 29 aprile apre al Beaubourg la mostra dedicata a Le Corbusier, nel cinquantenario della morte. Frédèric Migayrou e Olivier Cinqualbre hanno scelto di uscire dai percorsi consolidati di una storiografia ormai tesa quasi più a legittimare chi scrive che a indagare aspetti ancora inattesi dell’architetto nato nel 1887 a La Chaux-de-Fonds. Una mostra antologica, bisogna dire dopo tante mostre tematiche, non può che riproporre, dopo tanti specialismi, una chiave di lettura. Quella scelta dai curatori della mostra e del catalogo è condensata nel sottotitolo – Mesures de l’Homme – e nella copertina del catalogo che richiama uno dei pezzi più divertenti in mostra, il prototipo in legno del Modulor che sarà poi collocato a Marsiglia.
Ma le mesures evocate hanno due premesse che faranno discutere e molto. La prima è la radice tutta tedesca della formazione di Le Corbusier. Prendendo duramente le distanze dai tanti libri sull’argomento, dall’iniziale lavoro di Turner sino al prezioso recente lavoro della Dumont sulla corrispondenza di Le Corbusier, Migayrou sceglie una lettura tutta tedesca. Lo fa sia criticamente (le radici dell’«educazione sentimentale» di Le Corbusier sarebbero legate a Fechner, Wundt e alla psicologia sperimentale tedesca, poi ripresa e arricchita da quella francese, dai Souriau [Paul], Lalo, Henry, filosofi interessati all’estetica che scrivono anche su «L’Esprit Nouveau»), sia geograficamente: i luoghi della formazione sarebbero lo studio di Peter Behrens e Hellerau. Una forzatura? Presentarci un Le Corbusier che si contrappone allo storicismo guardando alla psicometria, all’estetica sperimentale e poi ai sensi dell’uomo – che scandiscono anche le sale della mostra e i suoi tempi – è una chiave accettabile? È indubbio che non solo le geografie e gli altri voyages d’instruction (fisici e mentali) vengono ricondotti a un saper vedere tutto costruito sulle misure, ma che scompaiono dalla scena anche personaggi come Apollinaire, Valéry o più ancora Ritter e luoghi come Pisa, Pompei, Roma, su cui tanto si è lavorato in questi ultimi anni. Ma con quella scelta era necessario.
Cinqualbre nella sala dedicata alle ville degli anni venti riprende questa chiave, provando a distinguere quando i tracés régulateurs sono davvero uno strumento progettuale e quando invece diventano una forma di legittimazione. Purtroppo l’aver dovuto ridurre lo spazio e di conseguenza la sala, un po’ comprime un lavoro di distinzione prezioso e anche una lettura che ha di fronte monumenti della storiografia lecorbusieriana, come i diversi saggi e libri di Tim Benton, Bruno Reichlin, Josep Quetglas. La sala dedicata alle diverse espressioni e usi del Modulor è il centro della mostra, insieme il cuore e l’inizio di una volontà di dimostrare che non vi è discontinuità nell’opera di le Corbusier. È una sala spettacolare, che enfatizza questo momento e il volume di saggi su Le Corbusier che formano il catalogo. Riescono Migayrou e Cinqualbre a convincere? È indubbio che se la sala non funziona, tutta l’impalcatura della mostra e del catalogo non reggerebbe. E la sala e i due saggi nel catalogo di Migayrou e di Marie-Jeanne Dumont, pur diversi, convincono… al passato. Se la traccia che la mostra segue è quella delle misure come invarianti del progetto, qui si arriva a un’estetica che da sperimentale diventa normativa e, come dice Dumont, anche signature artistique. Più problematica rimane la proiezione sul periodo successivo e il voler tener dentro questa chiave di lettura gli anni cinquanta. Per una scelta che forse non tiene conto delle scelte dello stesso Le Corbusier. Indubbiamente, dopo la guerra, Le Corbusier sceglie per sé una dimensione artistica a tutto tondo. Lo fa in ogni modo e con tutte le conseguenze, anche di forzare la ricerca plastica, sino a farla coincidere in parte con quella architettonica: senza capire le mostre che Le Corbusier si fa fare in quegli anni da Zurigo a Parigi, a Firenze, non si capisce questa ricerca di uscire dal riconoscimento che ormai tutto il mondo degli architetti gli conferiva e cercar di legittimarsi come artista. Anche la musica, oltre che la scultura, entra in questa strategia intellettuale. Proporre come chiave di lettura di quegli anni l’espace indicible appare persino un po’ contraddittorio con le misure dell’uomo e con l’evoluzione della stessa psicologia sperimentale in un cognitivismo dalle diverse anime, americane, inglesi, francesi, che pure Migayrou pone al centro della sua idea di continuità nelle poetica lecorbusieriana. Quel che diventa indicibile difficilmente entra se non in un sensismo pre-novecentesco che proprio la scuola tedesca da cui prende le mosse la mostra avrebbe discusso e criticato. Con passaggi interni alla mostra da studiare.
La sala forse più divertente per il pubblico e raffinata per il visitatore – caso raro nelle mostre – è quella dove vengono esposti straordinari prototipi del tavolo (che diventerà poi in vetro e prodotto da Cassina) o della sin troppo famosa chaise longue, che testimoniano invece della forza della ricerca di un’estetica sperimentale, anche negli oggetti e negli arredi, rinforzando la chiave critica della mostra.
La mostra si chiude sul Cabanon. Forse era inevitabile. Dalla certosa di Ema al Cabanon, lo spazio misurato su un uomo, sul «monaco» Le Corbusier e sulla sua scelta finale di farsi costruire in Africa e montare a Cap Martin il suo guscio rifugio, evidenzia la sua coerenza estrema che la casa a misura d’uomo voleva e che Le Corbusier avrebbe cercato. È una chiusura assolutamente coerente, forse resa un po’ enfatica dall’ultima immagine della mostra, la foto iper conosciuta di Le Corbusier nudo al Cabanon è l’immagine che accompagna il visitatore all’uscita. Ma se la scelta è la misura corporea, sia il Cabanon che l’immagine hanno una loro logica. Forse sono un po’ riduttive, anche rimanendo alla ricerca di una legittimazione, che proprio il Cabanon esalta, cercata in una coerenza estrema tra pensieri e azioni. Le Corbusier, proprio negli ultimi cinquant’anni è in caccia di legittimazioni più radicali. Come si è detto come artista, ma anche come costruttore di uno spazio pubblico, che sembrava davvero interessare poco in quei decenni le politiche urbane: e i due diversissimi Campidogli di Chandigarh e di Firminy ne sono esempi davvero interessanti.
Ma sarebbe sciocco discutere una mostra antologica a tema dicendo che manca questo o quello. La mostra è coerente con i suoi assunti? E i suoi assunti alla fine della visita sono convincenti e per ciò discutibili? La mostra è coerente sino agli anni cinquanta e nella conclusione. Non convince in quel passaggio, per le ragioni che si sono dette. Le misure indicibili sono un divertente paradosso, e per questa ragione, la linea di continuità con cui si vuole attraversare l’opera di le Corbusier appare interrotta. La mostra è assolutamente coerente nei suoi assunti e ne valorizza alcune espressioni, anche inattese, come i mobili. Lo sperimentalismo estetico e cognitivo è chiave davvero molto delicata e metterla in mostra è impresa difficile: Migayrou e Cinqualbre lo fanno con molti strumenti, disegni, opere, filmati rigorosamente d’epoca, oggetti, prototipi.
Dopo tante mostre a tema, un’antologica quasi spaventa. E ancor più spaventa, perché l’ultima grande antologica si ebbe, proprio al Beaubourg, nel 1987 , per il centenario della nascita di Le Corbusier, e fu un’occasione di formazione per un’intera generazione di storici.
Ma oggi tutto il contesto è cambiato. Oggi, come detto, attorno a Le Corbusier si muovono centinaia di studiosi, grazie alla liberalità della Fondation a lui dedicata si promuovono seminari, mostre, rencontres a decine ogni anno e, paradossalmente, questa è l’altra faccia della medaglia (o forse no…). La rinnovata fama di Le Corbusier riporta al centro di una discussione, davvero povera di fondamenti, temi come il Le Corbusier fascista, rilanciato da due brutti libri appena usciti, di François Chaslin e di Xavier de Jarcy. Operazioni puramente strumentali e legate alla congiuntura che la Francia sta attraversando, ma anche a conti non proprio fatti dalla cultura francese con gli anni di Vichy. Una mostra così sarà ancor più sotto tiro per il momento in cui esce: un algido Le Corbusier dedito alle misure del corpo e cultore dell’estetica sperimentale sembra proprio la vittima predestinata di semplificazioni brutali come quelle di Chaslin e de Jarcy. Forse starà anche a chi non condividerà gli assunti della mostra difendere una ricerca fondata su fonti, prove, documenti ed espressa in tesi falsabili, perché questa è la sola strada che la ricerca scientifica può avere davanti, ieri come oggi. E su questa strada la mostra è un contributo, certo discutibile ma vero.
Le mostre sono poi apparati scenografici, e forse nessuno come Le Corbusier, che metteva sempre in scena in suoi progetti, lo sapeva. La riduzione subita dello spazio, concentra forse eccessivamente, forse soprattutto la parte pittorica dell’opera di Le Corbusier, sino a farla diventare un repertorio quasi troppo sovradimensionato. In realtà in mostra il dialogo tra disegni, plastici, filmati d’epoca, oggetti è scenograficamente convincente e persuade anche un visitatore non specialista.
Come tutte le mostre a tesi, la mostra avrà assertori e detrattori. La vasta platea degli studiosi troverà necessariamente che qualcosa mancherà o non sarà convincente. Ma il suscitare dibattiti e discussioni è l’obiettivo di quasi ogni mostra, soprattutto al Beaubourg. E questa di sicuro non si smentirà.

Autore

  • Carlo Olmo

    Nato a Canale (Cuneo) nel 1944, è storico dell'architettura e della città contemporanee. E' stato preside della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino dal 2000 al 2007, dove ha svolto attività didattica dal 1972. Ha insegnato all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, al Mit di Boston e in altre università straniere. Autore di numerosi saggi e testi, ha curato la pubblicazione del "Dizionario dell'architettura del XX secolo" (Allemandi/Treccani, 1993-2003) e nel 2002 ha fondato «Il Giornale dell'Architettura», che ha diretto fino al 2014. Tra i suoi principali testi: "Le Corbusier e «L’Esprit Nouveau»" (Einaudi, 1975; con R. Gabetti), "La città industriale: protagonisti e scenari" (Einaudi, 1980), "Alle radici dell'architettura contemporanea" (Einaudi, 1989; con R. Gabetti), "Le esposizioni universali" (Allemandi, 1990; con L. Aimone), "La città e le sue storie" (Einaudi, 1995; con B. Lepetit), "Architettura e Novecento" (Donzelli, 2010), "Architettura e storia" (Donzelli, 2013), "La Villa Savoye. Icona, rovina, restauro" (Donzelli, 2016; con S. Caccia), "Città e democrazia" (Donzelli, 2018), "Progetto e racconto" (Donzelli, 2020)

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Last modified: 26 Giugno 2015