Si può fare una mostra ambiziosa su presupposti che fanno pensare allumiltà? Questi sono rimasti un po nellombra, a me sembra, nel dibattito su Fundamentals. Occuparsi di architettura piuttosto che architetti non vuol dire solo lasciare a casa le archistar, ma mettere in primo piano la dimensione antropologica (salvo poi ne restino in ombra molti aspetti). Dire che si espongono i risultati di una ricerca implica uno sforzo collettivo ma anche la rinuncia a un messaggio, a un manifesto, in favore di una discussione sui risultati.
La modernità, brillantemente affrontata dai padiglioni nazionali centra poco con gli Elements. A chi dice che Rem Koolhaas in questa Biennale ha chiuso i conti con il modernismo, deve essere sfuggito che lo ha già fatto tra Lille e la Bigness nella seconda metà degli anni novanta, quando in una delle poche conversazioni che ho avuto con lui, mi disse di essere finalmente riuscito a tagliare il cordone ombelicale.
Il segnale che però qualcosa non ha funzionato, lo ricavo dal contrasto tra il Koolhaas visto in giro a Venezia tra il 4 e il 7 giugno, e quello di quattro anni fa, alla vernice della mostra della Sejima.
Quello del 2014 era irritato e scostante nel sottomettersi alla routine delle visite e delle interviste. Si esponeva spesso in una difesa preventiva e cercava di sviare lattenzione sulla interattività cyber di alcuni elementi, o sulla preservation, mentre i quindici libri del suo trattato rimanevano privi di istruzioni per luso.
Ho ascoltato dalle interviste live del Giornale Marco Biraghi e Giovanni Damiani convenire sul fatto che il maestro è un po invecchiato e si sia limitato a chiudere, da par suo, un lungo ciclo. A me non pare che sia così, e mi aspetto un colpo di coda a novembre attorno alla conclusione della mostra.
Ma per tornare allumore del grande olandese, quattro anni fa lo ricordo ilare, affabile e onnipresente. La selezione molto personale della Sejima, priva di cornice teorica e perfino di spiegazioni verbali, costituiva il perfetto sfondo per le parole dordine di Koolhaas. Era una divisione dei compiti più riuscita della macchinosa collaborazione esibita nel 2014: una rarefatta mostra di esperienze sensibili da una parte, e una serie di aggiornamenti teorici dallaltra.
Cosa manca agli Elements? Io direi la disciplina, una cosa di cui tutti vogliono sbarazzarsi, e che si può intendere in diversi modi, ed è forse meno generica di unaltra parola: progetto (design), che mancherebbe secondo la lettura ferocemente critica di Sarah Goldhagen su Architectural Record.
Il cerbero Fundamentals ha mostrato il punto debole nella testa centrale, mentre le altre due Absorbing Modernity e Monditalia sono state, rispettivamente, un mosaico quasi tutto riuscito nei padiglioni, e un altro, nelle Corderie, afflitto da troppi registri tra il compiacimento, la nostalgia e linvettiva.
Francesco Garofalo: agli Elements manca la disciplina
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