Visit Sponsor

Carlo OlmoWritten by: Professione e Formazione

Se l’Università non sa guardare oltre i propri steccati

Il Giornale ha ricevuto e pubblicato diverse lettere e appelli sulle abilitazioni scientifiche nazionali. Lo ha fatto perché crede che le opinioni vadano rese pubbliche e trasparenti e discusse. E proprio perché questo è un luogo di confronto, il Direttore cui le lettere sono rivolte, crede giusto, dopo lunga meditazione, di dover esprimere la propria opinione. Non rispondere, non ne avrebbe l’autorità, ma dire quel che pensa con il massimo della serenità possibile.
Le abilitazioni sono nate male, forse malissimo; lo abbiamo scritto più di una volta sul Giornale. Sono nate male per diversi motivi. Il primo è perché si è sovrapposto un processo che stava concludendosi (la Vqr; Valutazione della qualità della ricerca) il quale, sebbene con tutti i dubbi che si è portato dietro, ha comunque fornito un quadro discutibile e falsabile della situazione della ricerca in Italia, a un affannato processo che ha rimesso le mani, a Vqr non conclusa, su due elementi molto sensibili. Il primo è l’elenco delle riviste, il secondo è la definizione di mediane, quanto meno improvvisate (e in alcuni settori mai concluse). Un primo elemento non solo di confusione, ma anche di mancata trasparenza, perché, senza davvero mettere in discussione chi si è trovato a formulare elenchi di riviste o a definire mediane in pochi mesi, farlo mentre si concludeva un processo durato due anni e che ha coinvolto migliaia di studiosi italiani e stranieri, è sembrato davvero troppo “italiano”.
Il secondo motivo per cui sono nate male è perché nel bando mancavano due elementi che internazionalmente legittimano una pratica, quella delle abilitazioni, che esiste in molti paesi europei. Le abilitazioni hanno mediane molto severe per i commissari (ben più severe che per gli abilitandi) e ci sono “indicazioni” che evitano sperequazioni tra commissioni, come invece purtroppo è poi avvenuto. La presenza di processi che si sovrapponevano e l’assenza di regole trasparenti ha innescato un meccanismo i cui esiti, purtroppo, per non pochi settori, sono sostanzialmente sperequati e in cui si sono poi infilate politiche accademiche non proprio virtuose.
Voglio solo fare due esempi. Se l’asticella per entrare in commissione non è davvero alta, succede inevitabilmete che i “sorteggiabili”, senza entrare, ci mancherebbe, in casi personali, vengono estratti su una base molto allargata. Questo può apparire buono: più “baroni” meno “baroni”, in una logica perversa di tipo puramente populistico che ha fatto danni di semplificazione, sotto gli occhi di tutti. Ma la cosa grave non è questa. La soglia alta avrebbe selezionato essenzialmente docenti impegnati nei settori di ricerca davvero “ai margini” dei settori scientifico disciplinari, ovviando ad un’anomalia tutta italiana, quella dell’eccessiva frammentazione dei settori scientifico disciplinari. Questo non è avvenuto e in molti, troppi settori, si è privilegiato il cosiddetto cuore della disciplina, proprio a danno di ricerche e settori innovativi, fortemente sperimentali e integrati con altri. Non solo. Ma questo privilegiare l’accademia nella sua “pancia” ha prodotto un altro effetto distorcente e forse altrettanto grave. L’espulsione dalle abilitazioni di tutti quelli che erano fuori dall’Accademia, persino dei giovani, che non strutturati vivevano ai margini della stessa. Si è assistito così a un’autentica decimazione dei cosiddetti esterni (fossero professionisti o studiosi giovani, dipende dai settori scientifico disciplinari), che dire grottesca è poco.
Come sempre accade in Italia, processi che erano interni alle regole si scoprono a esiti conclusi e iniziano… processioni di coccodrilli piangenti. Davvero si pensava che regole così avrebbero prodotto risultati anche solo etici? Come in ogni gioco, anche il più infantile, sono le regole a definire falli e… punizioni.
L’esito del tutto prevedibile è oggi al limite di una pièce di Ionesco. Qualsiasi mossa rischia di generare solo un sistema di controreazioni che determinerebbe unicamente uno stato di completa inerzia del sistema. E neoministro e rettori si trovano davanti interrogativi legali e sostanziali difficilissimi. E non aiuta certo la tendenza, anche questa molto accademica, a cercar di dividere buoni e cattivi, usando ad esempio i casi “scandalosi” per colpire anche le persone meritevoli che comunque hanno visto riconosciuto il loro lavoro scientifico. Vale la regola fondamentale che il singolo ha tutti i diritti di rivendicare un’ingiustizia e di opporsi (per di più essendo abilitazioni questo riconoscimento non implica un posto). E guai non fosse così.
Ma questo diritto non basta. Ci sono doveri molto più profondi che toccano tutti, ministro, rettori, docenti. L’Università non educa più all’etica o alla deontologia se si vuole usare una parola meno impegnativa. Chi fa le leggi, costruisce meccanismi che hanno internamente quasi inviti a…delinquere (pensare che docenti che neanche vengano sollevati dall’attività didattica possano in 4/6 mesi esaminare centinaia di candidati e migliaia di titoli è davvero prendere in giro il buon senso e fare i calcoli dei minuti dedicati nei verbali a candidato è, ad esempio, come sparare sulla croce rossa), Ma c’è un retropensiero ancora più preoccupante. Il piano speciale per gli associati è nato, bisogna ricordarlo, come risposta non solo a una spinta dei ricercatori che volevano vedersi riconoscere le forme, non solo le sostanze del lavoro fatto, ma a seguito di una serie, davvero da commedia di Totò, di promesse che a partire da ministri… antichi, non saprei neanche risalire nell’archeologia delle promesse, si erano fatte di “migliaia di posti”. Facendo balenare oltre tutto forme concorsuali riservate, chiamate dirette che con l’abilitazione davvero poco avevano a che fare.
Nella memoria di tanti quelle promesse, quel percorso anche di rivendicazioni di un ruolo docente è rimasto, aprendo ferite che è difficile sanare, in presenza anche qui di una legge quanto meno ambigua (tra posti riservati, liberi, esterni, in presenza di una valutazione che avrebbe dovuto essere scientifica). Si sono così incrociati promesse, lotte, desiderio di conservare all’Università un ruolo di Istituzione pubblica che svolge valutazioni comparative, un problema di rinnovamento sempre più acuto e una realtà che avvicina sempre più l’Università italiana… alla Mercedes e al richiamo in fabbrica del genio civile… capace di risolvere situazioni difficili, con forme che dire ludiche è forse poco (ad esempio docenti illustri richiamati a insegnare una volta entrati in pensione come senior… gratuiti per non chiudere corsi di laurea magari!). Anche qui per non aver la capacità di guardare a paesi stranieri e a modelli collaudati in democrazie più solide delle nostre..
Oggi la situazione è davvero molto più che intricata e tre sono i piani che devono assolutamente essere tenuti distinti. I diritti individuali che devono essere salvaguardati (di chi non è passato ma anche di chi è passato). Le irregolarità interne alla legge e invece le irregolarità dovute a comportamenti chiaramente illegittimi o faziosi. La necessità di mutare radicalmente non solo le regole ma proprio i principi, visto che le regole sono troppo volte state disattese (basta ricordarsi dei concorsi locali con tre o due idonei). Ed è un impegno non solo di chi governa ma della comunità scientifica, se vuole esistere. E la risposta non può neanche essere l’iper normativismo preventivo che sta diventando un autentico flagello, anche qui di chi spaventato degli esiti, cerca di aggiungere codicilli di ogni tipo, togliendo all’Università la sua più profonda natura: la libertà di sperimentare, di essere diversa, di costruire opportunità di studio e formazione sempre ai limiti dei saperi.

Autore

  • Carlo Olmo

    Nato a Canale (Cuneo) nel 1944, è storico dell'architettura e della città contemporanee. E' stato preside della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino dal 2000 al 2007, dove ha svolto attività didattica dal 1972. Ha insegnato all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, al Mit di Boston e in altre università straniere. Autore di numerosi saggi e testi, ha curato la pubblicazione del "Dizionario dell'architettura del XX secolo" (Allemandi/Treccani, 1993-2003) e nel 2002 ha fondato «Il Giornale dell'Architettura», che ha diretto fino al 2014. Tra i suoi principali testi: "Le Corbusier e «L’Esprit Nouveau»" (Einaudi, 1975; con R. Gabetti), "La città industriale: protagonisti e scenari" (Einaudi, 1980), "Alle radici dell'architettura contemporanea" (Einaudi, 1989; con R. Gabetti), "Le esposizioni universali" (Allemandi, 1990; con L. Aimone), "La città e le sue storie" (Einaudi, 1995; con B. Lepetit), "Architettura e Novecento" (Donzelli, 2010), "Architettura e storia" (Donzelli, 2013), "La Villa Savoye. Icona, rovina, restauro" (Donzelli, 2016; con S. Caccia), "Città e democrazia" (Donzelli, 2018), "Progetto e racconto" (Donzelli, 2020)

    Visualizza tutti gli articoli

About Author

(Visited 78 times, 1 visits today)
Share
Last modified: 3 Luglio 2015