Il Giornale ha ricevuto e pubblicato diverse lettere e appelli sulle abilitazioni scientifiche nazionali. Lo ha fatto perché crede che le opinioni vadano rese pubbliche e trasparenti e discusse. E proprio perché questo è un luogo di confronto, il Direttore cui le lettere sono rivolte, crede giusto, dopo lunga meditazione, di dover esprimere la propria opinione. Non rispondere, non ne avrebbe lautorità, ma dire quel che pensa con il massimo della serenità possibile.
Le abilitazioni sono nate male, forse malissimo; lo abbiamo scritto più di una volta sul Giornale. Sono nate male per diversi motivi. Il primo è perché si è sovrapposto un processo che stava concludendosi (la Vqr; Valutazione della qualità della ricerca) il quale, sebbene con tutti i dubbi che si è portato dietro, ha comunque fornito un quadro discutibile e falsabile della situazione della ricerca in Italia, a un affannato processo che ha rimesso le mani, a Vqr non conclusa, su due elementi molto sensibili. Il primo è lelenco delle riviste, il secondo è la definizione di mediane, quanto meno improvvisate (e in alcuni settori mai concluse). Un primo elemento non solo di confusione, ma anche di mancata trasparenza, perché, senza davvero mettere in discussione chi si è trovato a formulare elenchi di riviste o a definire mediane in pochi mesi, farlo mentre si concludeva un processo durato due anni e che ha coinvolto migliaia di studiosi italiani e stranieri, è sembrato davvero troppo italiano.
Il secondo motivo per cui sono nate male è perché nel bando mancavano due elementi che internazionalmente legittimano una pratica, quella delle abilitazioni, che esiste in molti paesi europei. Le abilitazioni hanno mediane molto severe per i commissari (ben più severe che per gli abilitandi) e ci sono indicazioni che evitano sperequazioni tra commissioni, come invece purtroppo è poi avvenuto. La presenza di processi che si sovrapponevano e lassenza di regole trasparenti ha innescato un meccanismo i cui esiti, purtroppo, per non pochi settori, sono sostanzialmente sperequati e in cui si sono poi infilate politiche accademiche non proprio virtuose.
Voglio solo fare due esempi. Se lasticella per entrare in commissione non è davvero alta, succede inevitabilmete che i sorteggiabili, senza entrare, ci mancherebbe, in casi personali, vengono estratti su una base molto allargata. Questo può apparire buono: più baroni meno baroni, in una logica perversa di tipo puramente populistico che ha fatto danni di semplificazione, sotto gli occhi di tutti. Ma la cosa grave non è questa. La soglia alta avrebbe selezionato essenzialmente docenti impegnati nei settori di ricerca davvero ai margini dei settori scientifico disciplinari, ovviando ad unanomalia tutta italiana, quella delleccessiva frammentazione dei settori scientifico disciplinari. Questo non è avvenuto e in molti, troppi settori, si è privilegiato il cosiddetto cuore della disciplina, proprio a danno di ricerche e settori innovativi, fortemente sperimentali e integrati con altri. Non solo. Ma questo privilegiare laccademia nella sua pancia ha prodotto un altro effetto distorcente e forse altrettanto grave. Lespulsione dalle abilitazioni di tutti quelli che erano fuori dallAccademia, persino dei giovani, che non strutturati vivevano ai margini della stessa. Si è assistito così a unautentica decimazione dei cosiddetti esterni (fossero professionisti o studiosi giovani, dipende dai settori scientifico disciplinari), che dire grottesca è poco.
Come sempre accade in Italia, processi che erano interni alle regole si scoprono a esiti conclusi e iniziano
processioni di coccodrilli piangenti. Davvero si pensava che regole così avrebbero prodotto risultati anche solo etici? Come in ogni gioco, anche il più infantile, sono le regole a definire falli e
punizioni.
Lesito del tutto prevedibile è oggi al limite di una pièce di Ionesco. Qualsiasi mossa rischia di generare solo un sistema di controreazioni che determinerebbe unicamente uno stato di completa inerzia del sistema. E neoministro e rettori si trovano davanti interrogativi legali e sostanziali difficilissimi. E non aiuta certo la tendenza, anche questa molto accademica, a cercar di dividere buoni e cattivi, usando ad esempio i casi scandalosi per colpire anche le persone meritevoli che comunque hanno visto riconosciuto il loro lavoro scientifico. Vale la regola fondamentale che il singolo ha tutti i diritti di rivendicare uningiustizia e di opporsi (per di più essendo abilitazioni questo riconoscimento non implica un posto). E guai non fosse così.
Ma questo diritto non basta. Ci sono doveri molto più profondi che toccano tutti, ministro, rettori, docenti. LUniversità non educa più alletica o alla deontologia se si vuole usare una parola meno impegnativa. Chi fa le leggi, costruisce meccanismi che hanno internamente quasi inviti a
delinquere (pensare che docenti che neanche vengano sollevati dallattività didattica possano in 4/6 mesi esaminare centinaia di candidati e migliaia di titoli è davvero prendere in giro il buon senso e fare i calcoli dei minuti dedicati nei verbali a candidato è, ad esempio, come sparare sulla croce rossa), Ma cè un retropensiero ancora più preoccupante. Il piano speciale per gli associati è nato, bisogna ricordarlo, come risposta non solo a una spinta dei ricercatori che volevano vedersi riconoscere le forme, non solo le sostanze del lavoro fatto, ma a seguito di una serie, davvero da commedia di Totò, di promesse che a partire da ministri
antichi, non saprei neanche risalire nellarcheologia delle promesse, si erano fatte di migliaia di posti. Facendo balenare oltre tutto forme concorsuali riservate, chiamate dirette che con labilitazione davvero poco avevano a che fare.
Nella memoria di tanti quelle promesse, quel percorso anche di rivendicazioni di un ruolo docente è rimasto, aprendo ferite che è difficile sanare, in presenza anche qui di una legge quanto meno ambigua (tra posti riservati, liberi, esterni, in presenza di una valutazione che avrebbe dovuto essere scientifica). Si sono così incrociati promesse, lotte, desiderio di conservare allUniversità un ruolo di Istituzione pubblica che svolge valutazioni comparative, un problema di rinnovamento sempre più acuto e una realtà che avvicina sempre più lUniversità italiana
alla Mercedes e al richiamo in fabbrica del genio civile
capace di risolvere situazioni difficili, con forme che dire ludiche è forse poco (ad esempio docenti illustri richiamati a insegnare una volta entrati in pensione come senior
gratuiti per non chiudere corsi di laurea magari!). Anche qui per non aver la capacità di guardare a paesi stranieri e a modelli collaudati in democrazie più solide delle nostre..
Oggi la situazione è davvero molto più che intricata e tre sono i piani che devono assolutamente essere tenuti distinti. I diritti individuali che devono essere salvaguardati (di chi non è passato ma anche di chi è passato). Le irregolarità interne alla legge e invece le irregolarità dovute a comportamenti chiaramente illegittimi o faziosi. La necessità di mutare radicalmente non solo le regole ma proprio i principi, visto che le regole sono troppo volte state disattese (basta ricordarsi dei concorsi locali con tre o due idonei). Ed è un impegno non solo di chi governa ma della comunità scientifica, se vuole esistere. E la risposta non può neanche essere liper normativismo preventivo che sta diventando un autentico flagello, anche qui di chi spaventato degli esiti, cerca di aggiungere codicilli di ogni tipo, togliendo allUniversità la sua più profonda natura: la libertà di sperimentare, di essere diversa, di costruire opportunità di studio e formazione sempre ai limiti dei saperi.
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