Della «fosca e turrita Bologna» già linchiesta che curammo per le pagine di questo giornale, nel dicembre 2011, tratteggiava il profilo onfalocentrico. Le scelte recenti, a partire dalla poderosa stazione interrata, paiono tutto sommato confermare quel carattere, per una città ripiegata in una contemplazione difensiva del proprio ombelico, ostile al contemporaneo quasi fosse una privazione di senso. Ciò in buona misura perché la città ha fatto del suo centro il proprio brand, in una sovrapposizione tra forma fisica e struttura iconicache ha finito per ingessare il tessuto ritenendone ogni mutazione unirrimediabile perdita nella riconoscibilità del sistema urbano.
Uninterferenza che lascia nellombra le periferie, anche qui la città prevalente e pur sempre «Bologna», ma solo in virtù di un certificato di delega. Fanno la differenza la distanza radiale dallasse totemico degli Asinelli e il pregio dei portici che si allungano oltre le mura, e che del centro sono di fatto i tentacoli e i prolungamenti.
Ora, che un nuovo brand possa da solo porre fine a questa coincidenza viziosa, tra una città e la propria icona, pare unimpresa audace, eppure ogni tentativo in questa direzione è senzaltro da incoraggiare e in questo senso il primo premio assegnato a Matteo Bartoli e Michele Pastore per il concorso «Bologna City Branding» appare finalmente un segno coraggioso e condivisibile.
Il sistema di branding elaborato dai progettisti concede alla città un alfabeto di segni aperto, nel quale le parole si scrivono per sovrapposizione dei loro caratteri, ricondotti a segni geometrici semplici, privi di qualsiasi radice alfabetica e variabili in intensità cromatica. Un sistema aperto ma riconoscibile come una sola grafia, attraverso la quale si può scrivere «Due Torri» come «Bolognina»; «Pilastro» come «San Petronio». Un codice di ri-scrittura della città come un gioco che ne ri-codifica la grafica a prescindere dalla ri-proposizione della sua figura storica.
Senza alcun rapporto con il costruito, il nuovo city brand comporrà limmagine della città in una parentela di forme, enfatizzando Bologna come rete relazionale piuttosto che come sommatoria di contenuti e proposte, che anzi, caso per caso, espressi in questo singolare sistema di segni, a meno di un pay off esplicativo restano del tutto celati. Non importa. Di una città come Bologna più che il singolo monumento conta il risultato di atmosfera, miscela di luoghi e di azioni che avrebbero potuto avere anche altri contesti, ma che qui hanno tuttaltro sapore, e pertanto anche tuttaltra grafia. Ecco allora che si può studiare a Bologna, leggere a Bologna, mangiare a Bologna con azioni comuni che rimangono intrise del luogo in cui vengono svolte e che con uguale unicità vengono scritte.
E se la scrittura del contenuto è pressoché immediata e già disponibile a tutti in un sito à la page (www.ebologna.it), per la decodifica del significato, nella piena riconoscibilità sistemica dei significanti, non è difficile prevedere che potrà presto apparire una app che in una logica simile a quella dei QR codes (ma di maggiore appeal grafico) potrà disambiguarne il valore e promuoverne la viralità, fino a vedere semmai anche i graffiti ricondotti allunicità di uno stile con cui Bologna potrà continuare ad essere sporca, ma almeno omogeneamente brandizzata.
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