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Cristina DonatiWritten by: Interviste

Facciamo meno riviste e più cultura

Facciamo meno riviste e più cultura

Questo è un dialogo con Hans Ibelings sulla teoria, sulla critica e sui nuovi media. La fine della supremazia del Movimento moderno, la globalizzazione o la terza rivoluzione industriale hanno generato una mutazione ovvero una stagnazione della cultura architettonica europea, a cui editori e critici rispondono con campagne di rifondazione degli strumenti per la comprensione del nuovo pluralismo architettonico. Ma non solo, la tradizionale rivista d’architettura vacilla sotto la popolarità di accesso all’informazione dai nuovi media, blog e twitter. Se le riviste riusciranno a sopravvivere, come dovranno cambiare?

«The Architecture Observer» è il nuovo «strumento multiforme per la critica architettonica», come lei stesso lo definisce. Quali sono i motivi del suo allontanamento da «A10» e i nuovi obiettivi editoriali di AO?
Dopo 8 anni e 44 numeri era arrivato il momento di fare qualcosa di nuovo. Ci sono motivi personali, come la morte di Arjan Groot con cui avevo fondato «A10»; motivi professionali, come la vendita della testata a una nuova casa editrice; e anche motivi «evolutivi». «A10» era nata sull’onda di un grande entusiasmo e ottimismo circa il bisogno di una piattaforma di dibattito europeo. Oggi la crisi ha determinato una controtendenza che vede molti paesi, compresa l’Olanda, chiudersi in una sorta di nazionalismo culturale. Infine, l’editoria sta cambiando e lo stesso ritmo temporale del cartaceo è troppo lento, senza contare i costi della stampa. Ho deciso quindi di mettere alla prova l’immediatezza del web e di pubblicare libri di approfondimento che avranno un formato standard per ridurre al minimo i costi. L’obiettivo è quello di sperimentare nuovi modi di comunicare con uno strumento più veloce, il web, e uno più lento, il libro.

In un recente editoriale lei parla di uno «stato di crisi» del giornalismo d’architettura, con i critici «ridotti a DJ che suonano l’ultima top 10» e «molte riviste che esistono solo per celebrare gli ultimi hit del momento». Può spiegarci meglio?
Siamo sommersi da un’inflazione di comunicati stampa replicati ovunque. Una disseminazione dell’informazione senza nessun autentico e indipendente inquadramento critico. Spesso è addirittura una pura forma promozionale da parte degli architetti che obbligano le riviste a pubblicare l’immagine che loro stessi hanno di loro stessi. Questo tipo di pubblicistica appiattisce il valore della critica. Provocatoriamente, vorrei dire che non si dovrebbero pagare gli articoli in base al numero di parole ma sulla qualità dei concetti: la cultura non si paga a peso! Così, suggerirei meno riviste, meno voci, ma più cultura.

Il web, i blog e twitter minacciano la sopravvivenza della stampa tradizionale. Se la rivista cartacea sopravviverà, che ruolo dovrà assumere nella nuova comunicazione d’architettura?
Non sono sicuro che le tradizionali riviste d’architettura riusciranno a sopravvivere per sempre. Le amo molto ma penso che si stiano avvicinando alla fine. La cultura oggi non è più centralizzata ed è giusto che vi si acceda da forme e fonti diversificate. Sul ruolo dei blog e di twitter, ho letto un articolo sul «Guardian» che si riferiva a questo tipo di comunicazione come a una sorta di «graffiti» sul muro. Messaggi effimeri e difficili da giudicare. Per me, sarà sempre indispensabile la presenza di un filtro e di un controllo editoriale che mette in relazione e in prospettiva storico-critica i contenuti.

In un recente convegno, Will Hunter (vicedirettore della britannica «Architectural Review») ha parlato delle tre «disgraces» della stampa d’architettura: troppo elitaria, troppo asservita al controllo degli architetti e troppo sottomessa al potere della pubblicità. Concorda con questa analisi?
Penso che ogni categoria professionale ha la sua stampa dedicata e anche agli architetti si può concedere d’avere la propria nicchia elitaria. Il controllo da parte degli architetti è sempre esistito, pensiamo a Le Corbusier che scriveva e pubblicava i suoi libri senza che nessuno potesse dirgli nulla. Il potere degli sponsor esiste e diventa quindi più difficile relazionarvisi quando proponi una rivista internazionale che non si rivolge solo al mercato locale. Essere indipendenti non è facile ma è una sfida irrinunciabile.

Si discute sempre più, a livello internazionale, del bisogno di una rifondazione disciplinare. È d’accordo su tale urgenza per quanto concerne la teoria architettonica?
La teoria ha dato un contributo molto importante dal 1950 al 1980. Sono gli anni del passaggio dal modernismo al postmodernismo: la fine di un’ideologia che richiedeva una forte rivisitazione della teoria per riformulare le direzioni future. Il primo libro della collana di «The Architecture Observer» tratterà proprio delle conseguenze di questa trasformazione nella realtà contemporanea europea. Nel libro rifletto sul fatto che, dagli anni novanta a oggi, l’architettura dell’Occidente ha raggiunto un livello da cui non riesce più a evolvere. A questo proposito, un recente articolo su «Vanity Fair» sottolineava che dagli anni cinquanta, ai settanta, ai novanta si sono registrati veri e propri salti epocali ma che, da allora, siamo rimasti stagnanti. Anche Alessandro Baricco analizza questo fenomeno nel suo libro I barbari, riferendosi alla mutazione sociale in atto. Un articolo di Douglas Coupland sul «New York Times» afferma che stiamo vivendo in una post-era, dove non c’è più zeitgeist, o meglio, c’è lo zeit (tempo) ma non il geist (spirito)! Viviamo in un limbo ed è sicuramente necessario ripensare una nuova teoria che ci indichi il futuro.

La fine della supremazia culturale del totalitarismo modernista è oramai storicizzata. Ritiene che si debba ricostruire una teoria globale o il pluralismo contemporaneo richiede strumenti più multidisciplinari e diversificati per comprendere l’architettura?
Penso che sia ancora possibile produrre una teoria coerente per comprendere che cosa stia accadendo sul piano sociale e culturale. Anche se non ha più senso parlare di un primato di un movimento o di una certa corrente rispetto a un’altra. Non esiste più un’architettura universale. Non credo però che ci sia bisogno di nuove regole, quanto piuttosto di nuovi strumenti per comprendere la complessità della condizione attuale.

Nel 1998 ha pubblicato la prima edizione di «Supermodernism. Architecture in the Age of Globalization». Quanto è cambiata la scena architettonica da allora?
È rimasta quasi identica. La maggior parte delle opere significative di quegli anni sono ancora attuali. Nel 2008, mentre scrivevo European Architecture Since 1890, mi sono reso conto che la fine della guerra fredda, la globalizzazione, la crisi stavano accompagnando l’architettura a un traguardo. Il libro sul supermodernismo aveva in effetti l’obiettivo di fissare i passaggi dal modernismo al postmodernismo al supermodernismo che, da un punto di vista concettuale, non è poi così diverso. Il pluralismo di oggi deriva infatti da quella libertà intellettuale e creativa che possiamo considerare una conquista del postmoderno che spezza per sempre il dogmatismo razionalista.

Nella cultura dell’Eurozona, esiste anche un’architettura con un «brand europeo» o pensa che ogni nazione abbia la propria «identità»? In questo contesto geo-culturale, come colloca la realtà italiana?
Esistono ancora le identità nazionali, basate sull’uso dei materiali, sulla risposta al clima e sulle tecnologie. Ma esiste anche una condivisione che riguarda molto di più il tempo che non il luogo in cui si vive. Si costruiscono edifici in Estonia che potrebbero essere realizzati in Svizzera. L’Italia soffre moltissimo la mancanza di opportunità, ma soprattutto di una classe dirigente priva di ricambio generazionale. I nuovi architetti e critici italiani stentano a emergere e, sinceramente, anche coloro che pensavo fossero le nuove promesse, si sono oramai adeguati alle visioni dell’establishment.
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Autore

  • Cristina Donati

    Prima collaboratrice poi redattrice della testata online fin dagli esordi nel 2014. Prematuramente scomparsa nel 2021. Studia architettura a Firenze dove consegue un Dottorato di ricerca in storia dell’architettura. Dopo la laurea si trasferisce a Oxford dove collabora con studi professionali, si occupa di editoria e cura mostre per Istituti di cultura a Londra. Ha svolto attività didattica per la Kent State University (USA) con il corso di Theories of Architetcure. Scrive per numerose riviste internazionali e svolge attività di ricerca sull’architettura contemporanea e i suoi protagonisti. Dirige la collana editoriale «Single» sul progetto contemporaneo per la Casa Editrice Altralinea. E' autrice di saggi e monografie tra cui: «Michael Hopkins» (Skira, 2006); «L’innovazione tecnologica dalla ricerca alla realizzazione» (Electa, 2008); «RSH+P, Compact City» (Electa, 2014); «Holistic Bank Design» (Altralinea, 2015).

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Last modified: 18 Luglio 2015